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Il professionismo spiegato a chi non ha una laurea in giurisprudenza

La legge 91 del 1981 tagliata giù fina fina

Una storia più travagliata di quella tra il calcio femminile e il professionismo non l’ha avuta neanche Ridge in tutte le 32 stagioni di Beautiful. Come vostra nonna cerca di spiegarvi la trama di quella serie senza tempo, districandosi tra gli infiniti matrimoni di Brooke, così cercheremo di destreggiarci tra risvolti e risvoltini della legge 91/1981 e delle disposizioni di CONI e FIGC.

Partiamo proprio dal testo della legge 91 del 1981, la quale affronta il problema del professionismo con la stessa serietà con cui gli Articolo 31 affrontano il problema della legalizzazione della marijuana.

L’articolo cruciale è il numero 2, nel quale viene definito il primo requisito del professionismo: “Sono sportivi professionisti gli atleti, gli allenatori, i direttori tecnico-sportivi e i preparatori atletici che esercitano l’attività sportiva a titolo oneroso con carattere di continuità nell’ambito delle discipline regolamentate dal CONI e che conseguono la qualificazione dalle Federazioni sportive nazionali”

Questo ci fa capire che per essere uno sportivo professionista è necessario praticare uno sport come principale attività lavorativa e da quella ricavare la propria principale fonte di reddito. La definizione di dilettantismo, non essendo esplicitata, viene ricavata per esclusione. Di conseguenza, si può considerare dilettante una persona che pratica uno sport per diletto, ma trova altrove la propria principale fonte di reddito. In pratica se di professione fate il medico, che dopo il turno giochiate a calcetto o a Pokemon go è indifferente, avrete la parola “sportivo” scritta al massimo alla voce “segni particolari” della carta d’identità. Al contrario, se praticate uno sport con continuità e qualcuno vi paga per farlo, allora la parola “sportivo” potrebbe essere scritta sulla vostra carta d’identità alla voce “professione”.

Stipulare con una società un contratto da professionista implica anche avere, oltre a uno stipendio, una serie di garanzie e diritti accessori come salario minimo, ferie, malattia, maternità, contributi pensionistici, trattamento di fine rapporto e tante care cose.

Chi parla correntemente il politichese critica la scorrettezza del termine continuità, visto che anche il calcetto con gli amici e le annesse birrette potrebbero ricadere nella definizione di sport praticato con continuità. Sarebbe più corretto utilizzare la parola prevalenza, perchè l’allenamento occupa la maggior parte delle ore della giornata di un professionista, mentre le birrette sono solo una visione. Giusto per chiarezza, se i termini continuità e prevalenza per voi si associano solo alle birrette, allora probabilmente il termine più corretto per descrivere la vostra condizione è alcolismo.

Il problema, tuttavia, è che l’articolo 2 continua con il secondo requisito: “secondo le norme emanate dalle Federazioni stesse con l’osservanza delle direttive stabilite dal CONI per la distinzione dell’attività dilettantistica da quella professionistica“.

Questo significa purtroppo che la legge gestisce i rapporti tra società e sportivi come vostro padre gestiva le vostre richieste di uscire il sabato sera, ovvero dicendo: “Per me sei libero di fare quello che vuoi, ma prima chiedi a tua madre”. Il ruolo di madre in questo caso è ricoperto dalle Federazioni, ovvero la FIGC per chi gioca a pallone, la FIPAV per chi gioca a pallavolo e così via, lasciando quindi proprio a ciascuna Federazione il diritto di decidere se i propri atleti siano dilettanti o professionisti.

Le Federazioni affiliate al CONI che hanno riconosciuto il professionismo sono quelle dei seguenti sport: calcio, pallacanestro, ciclismo e, ultimo ma non meno importante, il golf. Tratti forse in inganno dal fatto che tutti questi sport abbiano la o come ultima lettera, il professionismo vale solo per gli uomini che praticano queste discipline, escludendo indirettamente tutte le donne e molti altri atleti, anche uomini.

In questo quadro generale, le atlete del movimento femminile vengono definite professioniste di fatto, in quanto soddisfano il primo requisito richiesto per essere professionisti, ma non il secondo. Ovvero Federica Pellegrini, pratica con continuità e prevalenza sport, da quello trae la sua principale entrata economica, ma non è una professionista in quanto la Federazione a cui fa riferimento non la ritiene tale. Lo stesso vale per Sara Gama, la quale sulla carta d’identità ha scritto “calciatrice” solo in “segni particolari” (e solo dopo “ha i capelli più belli”). Nel suo caso poi, si verifica anche un paradosso a livello giuridico nel quale una società professionistica, come la Juventus, è costretta a stipulare accordi economici con un’atleta dilettante. Ovviamente in quanto dilettanti, nessuna delle due ha diritto alle tutele prima citate.

Per risolvere questa situazione, negli sport individuali si ricorre ad arruolamenti degli atleti neanche fossimo all’alba della Grande Guerra. Gli sport di squadra invece rimangono sguarniti, come nel caso della pallavolo, sia maschile che femminile, e ovviamente del calcio femminile.

Per capire come mai le Federazioni preferiscano sguazzare nel dilettantismo, possiamo osservare l’emblematico caso della pallavolo, la cui Federazione va fiera del proprio dilettantismo come la Nutella va fiera di usare l’olio di palma. Questo accade perché, a fronte delle entrate da sponsor e diritti tv, una società per “assumere” un dilettante ha ritenute da parte dello Stato per il 23% dell’importo lordo del contratto in questione. Nel caso di un contratto da professionisti, le ritenute per la società sarebbero quasi doppie, proprio perché dovrebbero andare a fornire le coperture economiche per le tutele di cui si accennava, mettendo in difficoltà i bilanci di molte società.

In pratica è come prenotare un ristorante per 100 persone. A parità di portate, se dite che è una cena aziendale vi fanno pagare 10 euro a testa, se dite che è un matrimonio ne pagherete 50, perché pagate il servizio: camerieri vestiti bene, la torta con i due sposini di zucchero, le posate argentate e il medico in sala per chi avesse più colesterolo che sangue alla quinta portata.

Ecco quindi alcune osservazioni conclusive per concludere la spiegazione:

  • In fin dei conti è sempre un problema di conti. Servono coperture per garantire le tutele dovute a queste atlete. Per arrivare a questo, tutto fa brodo: sponsor, diritti tv e sgravi fiscali per fare in modo che le società possano permettersi un compromesso tra una cena aziendale e un matrimonio, diciamo un battesimo.
  • Meglio non fare il passo più lungo della gamba e arrivare a un professionismo economicamente sostenibile, evitando uno sfasamento tra la normativa e la realtà del movimento femminile. È vero quanto ricorda Sara Gama quando dice che tra le prime otto al mondo, l’Italia era l’unica squadra di non professioniste. Ma non sarebbe nemmeno positivo arrivare ad un professionismo come quello spagnolo, in cui le calciatrici non hanno un contratto collettivo e un salario minimo, motivo questo del loro recente sciopero.
  • Una soluzione potrebbe essere un arruolamento di massa: Gama come generale dell’esercito, Girelli nei Carabinieri sezione “Carramba che sorpresa” viste le sue doti da cabarettista, Lazzari capitano dei pompieri per poter inserire nel repertorio canoro della Gang della Curva “Il pompiere paura non ne ha” e Cernoia nei paracadutisti per accompagnare i santi, spesso chiamati in causa, nella loro discesa dal cielo.

Giulia Beghini

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