Oggi Tabitha Chawinga siede sul trono della Serie A Femminile come momentanea miglior marcatrice del campionato (12 reti e 5 assist) ma soprattutto come forza travolgente dell’Inter Women.

Dall’alto del suo primato e di una stagione finora magistrale, Chawinga può osservare un futuro brillante che si dispiega davanti a sé, visibile a occhio nudo anche per chiunque si soffermi a guardare la luce accecante dell’astro neroazzurro.

Protagonista di un derby di Milano in cui è apparsa forza inarrestabile e inevitabile per la squadra di Rita Guarino, Chawinga ha avuto bisogno di pochi mesi per conquistare il palcoscenico del calcio femminile italiano.

Sì, oggi il futuro di Tabitha Chawinga non sembra più un dubbio. Ma ieri le sue esperienze raccontavano un’altra storia.

Ci piace credere nel volto universale e incondizionato del calcio femminile, in cui origini, etnie e possibilità si fondono senza distinzioni su un campo verde dove a contare sono solo talento, impegno e passione.

La realtà però tante volte, nonostante il traguardo appaia il medesimo, svela viaggi differenti.

Terza figlia di una famiglia di cinque persone, proveniente dal distretto di Rumphi nel nord del Malawi, Chawinga non aveva a disposizione accademie o programmi di sviluppo da bambina, quanto più una palla di plastica e un cugino con cui condividere l’amore per il calcio. Senza scarpini, a piedi nudi, il villaggio era era il loro stadio, il campo d’allenamento e il terreno di gioco, era l’inizio di ciò che forse sembrava solo un sogno.

Ma quello stesso sogno per le bambine era probabilmente più difficile anche solo da fantasticare. Così per strapparla al grigiore di una routine quotidiana, proprio suo cugino la porta con sé, a giocare tra i ragazzi, lì dove cominciano le storie di tante grandi giocatrici, cresciute in fondo in un mondo nato per gli uomini.

Tale è la convinzione che il calcio sia solo di genere maschile – e tale è l’attaccamento sociale alla concezione del genere in sé – che Chawinga ha dovuto farsi riconoscere come donna e non solo in senso metaforico.

Il talento non bastava, anzi, era sospetto perché troppo indomito per appartenere a una donna, o meglio, una ragazzina. E soprattutto quella ragazzina non aveva gli occhi chiari e la coda di cavallo di Alex Morgan o di qualsiasi altra giocatrice della sua età dai canonici tratti estetici.

Aveva solo 13 anni infatti, poco più di una bambina, quando Tabitha Chawinga fu costretta a spogliarsi davanti alla squadra rivale durante una partita tra team femminili della scuola perché non credevano che fosse davvero una ragazza a causa del suo aspetto androgino e soprattutto delle sue abilità tecniche e fisiche.

Un atto al limite della violenza fisica e psicologica, un’umiliazione anacronistica che esula i confini della decenza umana. L’evento si ripete ancora un anno dopo, in un contesto diverso, a un passo dalla professionalità, che rende l’accaduto ancora più inaccettabile.

All’epoca la Football Association del Malawi distolse lo sguardo dalle denunce e dai reclami che seguirono la vicenda. Ora è costretta ad ascoltare la richiesta di una delle giocatrici più interessanti del panorama internazionale di calcio femminile.

Più di un anno fa, Tabitha Chawinga si rivolse alle autorità malawiane affinché prestassero maggiore attenzione alla salvaguardia delle giocatrici in tutti i livelli della realtà calcistica femminile per evitare il ripetersi di abusi e violazioni di diritti umani.

Oggi la giocatrice si propone e si afferma come modello per le nuove generazioni.

Sicura di sé e del suo aspetto tanto quanto del suo talento, Chawinga vuole fare della diversità un punto di forza e della sua storia una piattaforma per le calciatrici del domani.

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