È il 24 novembre 1991 e la Nazionale italiana è in Cina per partecipare al primo Mondiale di calcio femminile. A pochi minuti dalla fine, covando la speranza dei supplementari, Sergio Guenza chiama in campo, con uno spiccato accento romano, una ragazzina piemontese. È un’Under 21, si chiama Rita Guarino ed è stata convocata per puntellare la rosa dopo l’infortunio di un pilastro quale Antonella Carta.

La Norvegia conduce per 2-1 quando dai piedi di un’azzurra parte un tiro dalla distanza, il portiere non la tiene, ci arriva Rita, è 2-2. La rete alla fine non sarà influente per la qualificazione ma il sistema metrico internazionale manca dell’unità di misura per indicare il peso sulle spalle, non tutte uguali. L’attaccante avrebbe voluto suo padre sugli spalti e non in Italia, per tanti motivi e anche perché più si è giovani e più i padri sono forti e ci possono aiutare a portare qualcosa di pesante, non solo di bellezza.

Inizia lì il gioco: rievocare quell’emozione. È che quando hai imparato che ne vale la pena, desistere è sempre un’opzione remota, la preferita della pigrizia e della paura.

Passano trent’anni, non abbastanza per pronunciare bene “Daje, piccolé” se sei nata sotto la Mole, eppure se dovesse pensarci Arianna Caruso agli ultimi quattro anni in bianconero è proprio quello che sentirebbe con le orecchie abituate al mare di Ostia. La voce rotta per nascondere il pianto, un gol, una corsa eludendo l’abbraccio delle compagne per andarsi a prendere quello di chi le ha permesso di fare il resto, più di tutti. Dentro la 21 bianconera c’è tutta Rita Guarino. È difficile alla fine di un percorso, con le difficoltà affrontate che si sgonfiano e prendono il retrogusto della nostalgia, restare lucidi per contare quanto ci resta in mano. Ma può aiutarci chi ci guarda, che se fosse possibile fare e vedere tutto da soli non saremmo sette miliardi.

È il 24 Marzo 2019 e all’Allianz Stadium di Torino si gioca Juventus – Fiorentina. È la prima volta che le donne mettono piede nella più grande sala della casa bianconera e in palio c’è uno Scudetto, il secondo. Il realismo, utile in ogni caso sia per non prendere cantonate che per stupirsi meglio quando avviene l’inaspettato, fa prevedere qualche migliaio di persone, diecimila per stare larghi, alla fine se ne contano quarantamila.

È una storia nota, così nota che ci sembra vecchia di anni, ma è vecchia lei o lo siamo noi? Probabilmente lo siamo noi che ci abbiamo fatto l’abitudine a sentirla e la pensiamo unica quando se ne potrebbe raccontare almeno una versione per ogni presente quel giorno, senza contare quelli a casa.

Una è sicuramente quella di Guarino che l’ha chiamata “bellissimo film la cui sceneggiatura però è stata scritta molto tempo prima”.

Per noi una storia, per lei un libro. Una volta le si è palesata una sua ex compagna, stupita e meravigliata di come le calciatrici avessero intorno tanti, tra bambini e adulti, desiderosi di una foto o di una firma. È stato accorgersi che era cambiato tutto, o quasi, visto che Rita era ancora lì, in altre vesti che è ovvio che la maglietta che indossi a quindici anni non ti stia più da adulto. 

Da che cinema è cinema, non c’è film che non si porti dietro una colonna sonora, e spesse volte è quella che si conosce e si riconosce, mica la trama. Sotto le immagini di Rita Guarino che accompagna Laura Giuliani a salutare i tifosi, che abbraccia le sue giocatrici, che indossa una maglia accettando anche il suo nome per intero, che è la cosa più vicina a quel che significa crescere, che raccoglie gli omaggi, festeggia e parla chiaro, non può suonare qualcosa che abbia già accompagnato altre pagine.

Non c’è tutto questo spazio nella nostra testa per le soluzioni che non sono singole. È per questo che una canzone ci ricorda una persona, un momento, un luogo, una pubblicità e ci turba associarla ad altro. A proposito, c’è un gioiellino, un piccolo capolavoro, nel senso della discrezione, firmato Margherita Vicario e finito nelle cuffiette da neanche un mese. Si chiama “Come noi” e inizia così: “Come noi, non lo se ci è passato mai nessuno sulla terra. Come noi, di sicuro no, io non me lo ricordo e non l’ho visto in un film dei tuoi”. E effettivamente no, nessuno ha vinto tutte le partite del proprio campionato nell’era dei tre punti come la squadra di Guarino.

La Juventus è nata vincendo, pure qualche cruccio l’ha avuto, ma si è cucita lo Scudetto sul petto dopo il duello a viso aperto con il Brescia e non l’ha più tolto. Continua la canzone “Ad ispirare le persone, dimmi come si fa. A migliorare le persone, dimmi come si fa. Ad arginare le persone, dimmi come si fa. A trasformare le persone, dimmi come si fa. A rispettare, a concentrarsi, a immaginare, a superarsi a disegnare, a innamorarsi, dimmi come si fa. A migliorare, a trasformarsi, a rifiutare, a abbandonarsi, a raccontare storie nuove dimmi come si fa.”

La Juventus ora lascia per la quinta stagione, come una bambina che fa la primina, la mano che l’ha accompagnata, guidata, plasmata, quella a cui chiedere “Come si fa?”.  

Perché è così difficile? Forse la verità è che allenatori si può diventare, si può studiare, si deve studiare, ci si deve aggiornare, ma capaci di aprirsi al punto da accogliere ci si deve nascere o almeno crescere, vivere insomma.

Non c’è stata fino ad ora Juventus senza Guarino ma Guarino senza Juventus sì, e continuerà ad esserci perché vogliamo tutti sapere come si fa a raccontare storie nuove, e soprattutto perché il gioco è sempre quello: rievocare quell’emozione

Marialaura Scatena
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