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Intervista esclusiva a Veronica Boquete. La Fiorentina, la rottura col Milan, il professionismo in Italia e Spagna

Veronica Vero Boquete

Veronica Boquete, da Santiago de Compostela, non è soltanto una calciatrice di talento e fonte di ispirazioni, ma può essere benissimo considerata una vera e propria leggenda del calcio femminile. Non solo per le sue gesta in campo, per l’esperienza maturata in giro per il mondo, ma per il semplice fatto che sin da bambina ha lottato per questo sport, per promuovere e far crescere il calcio delle donne ovunque, sempre.

C’è una frase pronunciata dall’ex tennista Arthur Ashe che dice: “I campioni sono quelli che vogliono lasciare il loro sport in condizioni migliori rispetto a quando hanno iniziato a praticarlo”. Poche semplici parole ma che descrivono perfettamente Vero Boquete.

In un’intervista esclusiva su L Football, la calciatrice spagnola della Fiorentina parla a 360° gradi di calcio femminile, toccando svariati temi importanti di attualità ma anche ripercorrendo momenti particolari della sua carriera. Boquete ha parlato di Fiorentina, del calcio italiano, di professionismo e investimenti, dei prossimi Europei in Inghilterra ma anche del suo addio al Milan e di cosa è successo con il club rossonero. 

Vero iniziamo dall’attualità. C’è una salvezza da conquistare con la Fiorentina.

“Nessuno pensava a inizio stagione che ci saremmo trovate in questa situazione. Un po’ per via della storia della Fiorentina, del fatto che è sempre stata nella parte alta della classifica, ma anche per la squadra che abbiamo, con giocatrici di talento. Anche le altre squadre hanno qualità e stanno facendo bene e tutto questo rende difficile il nostro percorso. Poi c’è da dire anche che affrontiamo squadre che sono abituate più di noi a lottare per la salvezza. Come ho detto alle mie compagne giocare per non retrocedere è brutto perché soffri molto di più, c’è una maggiore tensione. All’inizio della mia carriera mi è capitato di dover lottare per non retrocedere ed è stata un’esperienza che mi ha fatto crescere tantissimo ma in ogni caso è una tensione che non può essere paragonabile a quella di giocare una finale importante”.

Cosa non sta funzionando nella squadra?

“È una questione più psicologica ed emozionale perché sin dall’inizio delle gare la mente ti porta a pensare in negativo e questo è capitato spesso, soprattutto in alcune partite. Capita di dover subire prima di reagire e a volte ci mettiamo troppo a cambiare la nostra mentalità e giocare bene. Dobbiamo cercare di non regalare un tempo alle avversarie. Non aver paura negli ultimi minuti. Gestire l’aspetto mentale non è facile, nel calcio come in altri sport. È una stagione difficile per tutte, ma dobbiamo cercare di fare tutto il possibile in queste ultime due partite, che per noi sono come delle finali”.

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Nella squadra viola chi o cosa ti ha maggiormente impressionato?

“In generale la società, perché tiene molto alla sezione femminile, abbiamo tutto quello di cui abbiamo bisogno, un ambiente dove c’è tanta professionalità che invece manca in altre squadre. Anche per questo fa male vedere la Fiorentina così in basso in classifica e non merita l’attuale posizione.  Per me è una grande soddisfazione lavorare con Patrizia (Panico, ndr) ed essere allenata da lei, finalmente una donna in panchina. Questa stagione è molto dura anche per lei, ma l’impegno non manca giorno dopo giorno. Per me è un’allenatrice molto brava. Poi ci sono giocatrici giovani di qualità e bisogna trovare il modo di farle esplodere e mostrare il loro talento in tutte le partite”.

A te piace molto servire assist e nella Fiorentina hai la fortuna di giocare insieme a due grandi bomber come Giacinti e Sabatino, senza nulla togliere a Lundin. Cosa pensi di loro?

“Con Vale (Giacinti, ndr) è facile giocare perché è una delle poche attaccanti che vede e attacca lo spazio. Mi trovo veramente bene con lei, non ci sono molte giocatrici che fanno i movimenti che fa lei e che a volte ti fanno vincere le partite. Per me, per le mie caratteristiche, giocare insieme a queste calciatrici, che vedono il calcio come lo vedo io, è un piacere. Per Dani (Sabatino, ndr) invece ho tanta ammirazione, vedere una giocatrice, della sua età, con così tanta voglia di giocare e di migliorare ancora giorno dopo giorno è un piacere. Questo fa sì che lei possa rendere ancora meglio. Sono caratteristiche che non è facile trovare in altre giocatrici con la sua esperienza. Per me è davvero un piacere giocare con lei”.

Daniela Sabatino è anche un esempio per le calciatrici più giovani.

“Assolutamente, senza dubbio. Spero che le più giovani prendano esempio da lei, perché spesso si concentrano su altre cose che magari non sono importanti, mentre un modello di riferimento come Daniela o come altre giocatrici è una grande fortuna. Non so se loro se ne rendano conto”.

A dicembre hai lasciato il Milan. Cosa è successo nella squadra rossonera?

“Semplicemente si è rotto un rapporto. Il Milan aveva una squadra e un potenziale per stare al vertice della Serie A. Quest’anno, ma come anche quello scorso, nei momenti cruciali, quando affrontava squadre top non riusciva mai a vincere. Questa era una cosa che non andava bene e noi giocatrici volevamo di più, volevamo allenarci di più, migliorare, crescere, giocare meglio, per essere una squadra vincente. La questione è stata posta allo staff tecnico, perché quella situazione ci frustrava. Volevamo che qualcuno facesse qualcosa perché noi volevamo di più, c’era bisogno che qualcuno cercasse di cambiare questa situazione. Ho avuto un colloquio con il direttore sportivo al quale ho esposto questa situazione per trovare una soluzione. Da quel momento in poi è successo che non ho più giocato”.

Ti sei chiesta il perché? In fondo le tue considerazioni erano per il bene del Milan.

“Probabilmente non è piaciuto il modo in cui ho esposto queste considerazioni o forse non è stato compreso quello che intendevo. Forse non ci siamo capiti, oppure hanno frainteso e capito una cosa diversa. Io non ho mai detto che Maurizio Ganz doveva andar via come qualcuno ha detto o scritto. Io sono una giocatrice, non sono io preposta a trovare le soluzioni, questo spetta alla società o allo staff tecnico, io mi sono limitata solo a dire la mia opinione su un aspetto che ritenevo importante”.

C’è stato un momento in cui il rapporto si poteva ricucire con il dialogo oppure eravate arrivati al punto che andar via era l’unica soluzione?

“Andare via era l’unica soluzione perché non potevo restare in una squadra senza giocare e nessuno mi ha mai spiegato perché finivo in tribuna”.

Non c’è stato quindi nessun confronto?

“Una settimana, due settimane, pensavo nella mia testa ‘vediamo cosa succede’, ma nessuno diceva niente e la situazione non cambiava. Mi allenavo sempre con le giocatrici non titolari. A un certo punto sono andata da Maurizio Ganz per avere un confronto, per capire, ma anche per farmi dire con sincerità ‘guarda con me non giocherai più’ oppure ‘non mi è piaciuto questo o quest’altro tuo comportamento’, qualsiasi cosa ma almeno parlare e chiarirsi. Questo non è accaduto e allora non avevo altre soluzioni che andare via a dicembre”.

Prima di venire a giocare in Italia che idea avevi della Serie A? Dopo questo anno e mezzo è cambiato il tuo pensiero? Se sì in cosa?

“La mia idea era di un campionato minore rispetto ad altri più importanti in Europa, come Inghilterra, Francia o Germania. Sapevo che in Italia il movimento stava crescendo, con un percorso simile a quello che è avvenuto in Spagna, ma con qualche anno indietro. Sapevo di non arrivare in una lega top ma che c’era una crescita come testimoniano gli ultimi anni. Questo è lo stesso pensiero che ho ancora adesso, perché mancano ancora tante cose per avere un campionato professionistico, ci sono ancora delle carenze nonostante i risultati ottenuti. In Inghilterra giocano in stadi moderni con erba naturale, mentre se guardiamo qui in Italia, gli impianti non sono di primissimo livello”.

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Il prossimo anno entrerà in vigore il professionismo nel calcio femminile. Al momento si conosce poco, ma pensi sarà una svolta per il calcio italiano oppure serve altro? Cosa manca per fare il grande salto?

“Mi piacerebbe saperne di più su questo professionismo, in cosa consiste. Se si tratta solo di stipendi, tasse, contributi e guadagnare più soldi, allora non basta. Per rendere davvero professionistica la competizione ed esserci tutte le condizioni affinché le giocatrici possano essere professioniste, non basta parlare solo di salari. Mi piacerebbe conoscere le condizioni minime che le società dovranno applicare. Un discorso che va a toccare anche la situazione dei campi dove si gioca, gli impianti di allenamento, sono aspetti molto importanti, come anche la vendita dei diritti audiovisivi. Al momento non si sa nulla”.

Non bisogna commettere l’errore di pensare che il professionismo possa risolvere tutti i problemi che affliggono il calcio femminile.

“Cambiare lo status di noi giocatrici non cambia la situazione attuale. In Spagna il prossimo anno la massima serie sarà professionistica, ma ci sono voluti cinque o sei anni di battaglie. Servono impianti e infrastrutture e oggi sono poche le squadre in Italia che possono permettersi questi standard. Giocare nella Fiorentina, nel Milan o nella Juventus non è la stessa cosa che giocare in altri club. Società più piccole di calcio femminile, che devono pagare per avere un campo dove allenarsi, pagare per un impianto dove giocare le partite, soffriranno terribilmente. Questi club pagano le calciatrici 200 o 300 euro al mese. Non sei professionista così. Non lo sei nemmeno se non metti a disposizione della squadra un medico, un fisioterapista, un preparatore oppure se effettui trasferte lunghe in pullman partendo il giorno stesso della gara. Sono questi aspetti che devono cambiare, queste sono le priorità, dopo verrà il resto. Se poi cambia solo il nome sopra ma tutto quello che c’è sotto resta uguale allora per l’Italia la strada sarà ancora lunga”.

Alla luce di quello che hai appena detto ti faccio una domanda particolare dandoti tre opzioni di scelta ma puoi sceglierne solo una di queste. Nel calcio femminile vorresti: più investimenti da parte dei club, un pubblico maggiore negli stadi o una visibilità maggiore su tv e stampa?

“Scelgo maggiori investimenti da parte delle società, perché può portare a migliori condizioni per le calciatrici, per gli staff, ci sarà un vantaggio anche nelle competizioni, con partite più belle e questo farà sì che la gente venga ad assistere alle gare, i giornali iniziano a parlarne e così si innesta un circolo virtuoso con anche gli sponsor che si avvicinano al calcio femminile e ne beneficia tutto il movimento”.

Prima parlando della Serie A hai detto che in Europa non è ai livelli dei primi tre o quattro campionati. Secondo te questo pensiero è molto radicato tra le calciatrici straniere? Hanno delle perplessità nel venire a giocare in Italia?

“Sì, fino ad adesso sì, questo però è un pensiero che sta cambiando, perché ogni anno sono tante le giocatrici di qualità straniere che scelgono la Serie A. Però è vero che le calciatrici di primo livello preferiscono altri campionati, perché ci sono società che investono molto di più. In Italia negli ultimi anni il punto di riferimento è la Juventus perché di anno in anno è capace di attrarre calciatrici sempre più forti e adesso dispone anche di un allenatore con grande esperienza. Questo testimonia che quando ci sono investimenti e idee chiare, allora la gente supera le perplessità e decide di venire a giocare o allenare qui. Vedremo cosa accadrà nei prossimi anni”.

Parliamo un po’ della Spagna adesso. Pensi che il Barcellona abbia iniziato un ciclo in Europa destinato a durare a lungo?

“Penso proprio di sì, perché non ha iniziato adesso ma è già da un paio di anni che si trova al top in Europa, ha già disputato due finali di Champions League, la prima persa contro il Lione. Negli ultimi anni in Spagna con il Barcellona, ma non solo, si è avuto un salto di qualità. Non è che il talento prima mancasse, ma solo che le ragazzine giovani non avevano la possibilità di coltivarlo e farlo crescere. Ora le giovani calciatrici possono contare su una base solida. Con l’avvento dei grandi club professionistici le condizioni sono cambiate e anche le opportunità. Oggi il modello di riferimento è il Barcellona, le più forti giocatrici spagnole giocano lì, ma anche le straniere più forti. Il club catalano ha scelto tre o quattro giocatrici di spessore internazionale che in Spagna non si trovano per completare la squadra. Questo fa sì che il club catalano sia un punto di riferimento”.

Che ruolo sta giocando il club catalano nella crescita del calcio femminile a livello globale? Pensiamo ad Alexia Putellas che è diventata per tantissime bambine un modello da seguire.

“Si esatto, un modello come lo sono state le calciatrici della nazionale femminile negli Stati Uniti. Le ragazzine americane sono cresciute guardando la Nazionale, conoscevano le giocatrici, i loro nomi, andavano a vederle negli stadi o in tv. Tanti spot pubblicitari avevano le calciatrici come protagoniste. Tutto questo mancava nel resto del mondo, mentre oggi una situazione simile sta accadendo in Spagna, con il Barcellona e con Alexia ma anche con tante altre calciatrici conosciute sia in patria che all’estero. Tutto questo porta le bambine a sognare di diventare calciatrici, i genitori vogliono che le proprie figlie giochino a calcio, prima invece non era così facile e questo rende tutto più semplice. Vedere il Camp Nou tutto esaurito nelle partite di Champions League femminile ci porta ad abituarci e magari potremmo avere una situazione così tutti i weekend”.

Il calcio femminile in Spagna è cresciuto tantissimo in questi anni, il merito va anche alla tua generazione di calciatrici che ha lottato per raggiungere i traguardi di oggi. Il professionismo da voi ha avuto un’accelerazione incredibile ma anche grossi ostacoli. Come mai secondo te e a che punto siamo?

“Mi piacerebbe tanto saperlo perché in Spagna quando sembra tutto fatto poi alla fine spunta sempre qualche imprevisto. Il vero problema è la guerra che c’è tra La Liga e la Federazione calcistica. Il calcio femminile purtroppo si è trovato in mezzo a questa lotta. Adesso sembra ci sia un’idea comune tra le società e si è arrivati, anche attraverso la mediazione del governo, ad avere una competizione professionistica. Ora si attende solo la nomina del presidente della nuova lega femminile. Solo che siamo ad aprile ma ancora tante cose non sono state definite”.

Negli Stati Uniti le calciatrici della nazionale hanno ottenuto il riconoscimento all’equo compenso, il famoso equal pay. Pensi possa essere possibile anche in Spagna e in Italia?

“No, non penso possa essere possibile nel breve termine. Questo perché stiamo parlando della Nazionale femminile degli Stati Uniti che è più vincente e genera più appeal di quella maschile. Quando gioca la USWNT gli stadi sono pieni e le stesse protagoniste generano soldi. Tutto questo non accade in Italia o in Spagna. Però c’è da dire che l’equal pay è stata una priorità per un numero limitato di giocatrici. Quante? 20 o 25 forse. Poi però se analizziamo bene nel resto del paese ci sono dei salari minimi molto bassi. Per l’Italia e la Spagna la priorità deve essere una migliore condizione non l’equal  pay, forse arriverà tra molti anni, chi lo sa, magari. Ci vorrebbe una sorta di equal all’interno della federazione per quanto riguarda la promozione degli eventi. Perché è vero che negli anni il calcio femminile ha avuto tante carenze per effetto di un pensiero maschilista e non si è fatto nessun investimento come nel maschile. Ma occorre promuovere le partite della Nazionale femminile come quella maschile. Se il calcio maschile non ne ha bisogno, allora bisognerebbe destinare le risorse al femminile o alle categorie inferiori. L’equal pay per me verrà dopo, ora le priorità sono altre”.

Hai giocato ovunque nel mondo, secondo te quale campionato, tra quelli in cui hai militato, è cresciuto di più da un punto di vista tecnico e atletico?

“Io direi senza dubbi quello spagnolo perché a livello tecnico e di talento il calcio iberico è sempre stato forte, ma anche culturalmente, tutte siamo cresciute col calcio, un po’ come in Italia, conosciamo schemi, ma quello che mancava era la fisicità. Ora che sono cambiate le condizioni, dove si lavora anche sull’aspetto fisico, caratteristica questa che, se unita al talento a alla tradizione calcistica che c’è come Paese, ci permette di competere anche con le nazioni più forti. Uno dei tanti problemi del calcio femminile negli anni passati è stato il livello degli allenatori. È successo che gli scarti del calcio maschile sono stati relegati per anni al calcio femminile. Se gli allenatori non sono validi allora ci sono delle carenze. Se per 15 o 20 anni ci sono stati allenatori che non lavorano sul talento, per farlo crescere, non si arriverà mai a un livello elevato di gioco”.

In passato infatti hai criticato fortemente l’ex ct della Spagna.

“Sì, perché eravamo in una situazione drastica. Dai Mondiali del Canada in poi, il calcio femminile in Spagna è cresciuto tantissimo. Parliamo di un allenatore che è stato sulla panchina della Spagna per 27 anni. Io per 14 anni ho avuto in Nazionale sempre lo stesso allenatore e da lui ho imparato solo cose che non si dovrebbero fare in campo”.

Negli ultimi quindici anni questo sport è cambiato tantissimo, avere uno staff tecnico che predica gli stessi principi da trent’anni è un forte limite.

“Infatti diverse squadre hanno avuto questo problema. Se il calcio cambia e le persone rimangono ancorate a vecchi principi allora c’è un problema, non puoi crescere. Ora per fortuna la situazione sta cambiando. Se nelle squadre Primavera le calciatrici non hanno il meglio come allenatori, avranno difficoltà nella massima serie”.

A luglio ci saranno gli Europei, chi vedi come favorita e che percorso possono fare Italia e Spagna?

“Per me la Spagna è una delle favorite per vincere il titolo, ha il potenziale per vincere gli Europei ma anche i prossimi Mondiali e le prossime Olimpiadi. Penso che questo sia il momento ideale per la generazione di calciatrici che ci sono adesso. L’unico dubbio è come arriveranno a livello fisico e mentale alla fine della stagione, perché tante giocatrici militano nel Barcellona che arriverà in fondo alla Champions League. La Spagna sicuramente sarà tra le prime quattro agli Europei perché penso che prima delle semifinali non ci saranno squadre che possano impensierirla. L’Italia invece è un’incognita, io credo che sia una nazionale che può arrivare lontano per la forza del gruppo e per il forte attaccamento alla maglia azzurra. Nell’ultimo Mondiale è stata una sorpresa, ha fatto un ottimo percorso, ora vediamo se saranno capaci di ottenere lo stesso risultato. A livello individuale ci sono calciatrici con esperienza e giovani molto interessanti e dipenderà tutto da come andrà il percorso nel girone e chi incontreranno dopo”. 

In passato hai scelto come numero di maglia il 21 in onore di Daniel Jarque. Quando è scomparso giocavi nell’Espanyol e la sua morte ti ha segnato molto. Cosa porti di lui dentro di te?

“È stata una tragedia dura per tutti all’interno della società. Per me è stata una botta tremenda, nessuno si aspetta che una persona così vicina, un ragazzo che ha iniziato dalle giovanili e ha fatto tutto il percorso all’interno dell’Espanyol arrivando a indossare la fascia da capitano ed essere leader della squadra, possa morire da un giorno all’altro. Una tragedia che mai dimenticheremo. Io quando posso infatti preferisco sempre giocare con la maglia numero 21 in sua memoria. Per tutti noi Dani Jarque, come anche qui a Firenze Davide Astori, è un simbolo e sarà presente sempre nei cuori di chi l’ha conosciuto”.   

Se dico Spagna-Scozia cosa ti viene in mente? Ci racconti quei minuti finali e tutto quello che ti è passato nella mente?

“Allora faccio una premessa. Andiamo indietro nel tempo. Essendo un playoff (qualificazione per gli Europei del 2013, ndr) ci sono state due partite, andata e ritorno. La prima partita l’abbiamo giocata a Glasgow ed è finita 1-1. La seconda invece quattro giorni dopo a Madrid. Nell’ultimo allenamento prima della gara di andata mi sono fatta male al ginocchio e non ho potuto giocare. Per recuperare ed essere disponibile per la gara di ritorno ho fatto delle infiltrazioni e per 70 minuti non avrei dovuto sentir dolore, ma quella partita è durata 125 minuti. I 90 minuti terminarono 1-1, nei tempi supplementari loro segnano il 2-1 e ci siamo trovate in una situazione difficile perché dovevamo segnare due gol per qualificarci. Mancavano cinque minuti alla fine e riusciamo a pareggiare. Io in testa per tutta la gara avevo comunque delle buone sensazioni”.

Ma il ginocchio ti faceva male?

“Sì tanto, nel secondo tempo avevo iniziato a sentir male [ride]. Però in quel finale, dove mancavano cinque minuti ancora potevamo farcela a fare un gol. Nell’ultimo minuto del secondo tempo supplementare ci assegnano un calcio di rigore. Nella gara di andata, dove io non ero in campo, due mie compagne avevano discusso su chi avrebbe dovuto batterlo. La rigorista ero io, ma non ero in campo ed entrambe volevano calciarlo”.

Chi erano le due che hanno discusso?

“Sonia Bermúdez e Adriana Martin. Alla fine ha calciato Adriana e ha sbagliato. Tornando a quell’ultimo minuto della gara di ritorno, io sono andata da Adriana e le ho detto: ‘Tu hai calciato a Glasgow e hai sbagliato, ora tocca a Sonia’. Bermudez ha preso in mano la palla e pensavo stesse andando a battere e invece è venuta da me e mi ha detto: ‘Questo è tuo’. Io prendo la palla e nella mia testa dico: ‘Ok basta, questo sarà gol sicuro.’ Piazzo la palla, il ginocchio mi fa male, cerco di non calciare di interno per evitare dolore, tiro più di collo pieno’. Calcio male, all’altezza della mano della portiera, e sbaglio. In quel momento volevo sparire. Non può essere! Nel momento più importante per il calcio femminile spagnolo. Non volevo più giocare. Passano dieci secondi durante i quali penso di tutto ma poi dico a me stessa: ‘No, non può finire così’. Magari ci danno ancora un minuto di recupero e possiamo provare a far gol. Nell’azione successiva, dalla destra viene messa una palla in area, in cuor mio sentivo che quella palla sarebbe finita a me, una compagna la tocca di testa, si impenna, viene verso di me, in quell’istante penso a come posso calciarla e alla fine mi dico solo che devo cercare di prenderla. La colpisco male, di sinistro, e finisce in rete. L’arbitro fischia la fine. Esplode la gioia. Per noi che eravamo lì è stato il momento più emozionante che abbiamo condiviso su un campo da calcio”.

Sono partite che non valgono un trofeo, un titolo, ma sono leggendarie e restano scolpite nella mente.

“Io ho sempre detto che non c’è nulla di meglio di una finale. Ma quella partita era troppo importante per il calcio femminile spagnolo anche per l’impulso che c’è stato dopo, per la crescita e lo sviluppo. Sicuramente quello alla Scozia è stato il gol più importante della mia carriera”.  

Sei una persona che non ha mai avuto paura di dire quello che pensa. Questo ha influito sulla tua carriera?

“Sì, a volte in senso positivo altre volte in negativo. Mi è capitato di dover pagare delle conseguenze per la mia onestà e sincerità. Spesso si preferisce non dire certe cose, ma nella mia carriera mi è capitato di subirne le conseguenze. Col tempo, pensandoci, e valutando a posteriori, in alcuni casi sono state scelte positive e in altri negative ma poi penso che non posso essere diversa da come sono. Se mi fossi comportata diversamente anche la mia carriera non sarebbe stata la stessa. La mia schiettezza è mirata sempre al bene del calcio femminile perché voglio che nel mio sport ci siano le migliori risorse all’altezza delle aspettative”.

Il tuo futuro sarà ancora in Italia? Quando smetterai di giocare cosa ti piacerebbe fare?

“Io penso di giocare ancora un anno, non so se in Italia, in un altro campionato o in Spagna. Quando smetterò di giocare mi piacerebbe diventare allenatrice. Il mio futuro sarà in panchina. Non so se nel calcio femminile o maschile ma sicuramente voglio essere un’allenatrice ai massimi livelli”.

Grazie Vero, in bocca al lupo per tutto.

Giuseppe Berardi
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Si ringrazia la Fiorentina Femminile e Veronica Boquete per la disponibilità.

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