2007. Cina. Mondiali di Calcio femminile. In una delle due semifinali, si affrontano Brasile e USA. Il percorso della Nazionale Statunitense nella competizione appare inarrestabile e il sogno è quello di ripetere la straordinaria impresa del 1999. Ma quel giorno un cambiamento improvviso diventa un presagio di sventura. Tra i pali torna titolare Brianna Scurry, leggenda della generazione precedente, al posto di Hope Solo, custode principale della porta da ormai tre anni.

La decisione dell’allenatore Greg Ryan stupisce tutti, Scurry non disputava una partita di quel livello di competitività da quasi un anno ormai. Tale è la rarità di una simile mossa strategica che persino Julie Foudy e Tony DiCicco – che con Scurry avevano vinto proprio i celeberrimi Mondiali del ’99 – nella telecronaca per la ESPN restano perplessi di fronte a questa scelta. Ryan dal suo canto spiegherà le ragioni della sua decisione affermando che Scurry deteneva ancora un particolare record di imbattibilità proprio contro la formazione sudamericana, dato effettivo ma risalente ormai a diversi anni prima. 

Il Brasile di Marta, Cristiane e Formiga fa della USWNT ciò che vuole e la prestazione di Scurry è esattamente debole e imprecisa come ci si aspetterebbe anche dal miglior portiere lasciato in stand-by troppo a lungo. In un assordante e umiliante 4-0, gli USA vedono sfumare la finale e i sogni di gloria di sollevare nuovamente la Coppa del Mondo. La stampa presente sul posto pone le domande più scomode nel post-partita e Hope Solo li accontenta. Sfuggita al controllo del responsabile stampa della squadra, quando le viene domandato cosa pensasse della gara e della decisione del coach di lasciarla improvvisamente in panchina, Solo risponde così:

 “È stata la decisione sbagliata e penso che chiunque conosca qualcosa del gioco lo sappia. Non ho dubbi sul fatto che io avrei fatto quelle parate. E il problema è che non è più il 2004, è il 2007, e dobbiamo vivere nel presente. Non importa cosa qualcuno abbia fatto in una partita per l’oro olimpico tre anni fa. Ciò che conta è ora, questo è quello che penso.”

Le affermazioni di Hope Solo viaggiano in fretta e le conseguenze sono scontate: verrà sospesa ufficiosamente, allontanata dalla squadra, costretta a domandare formalmente scusa ed emarginata dal gruppo per tutto il tempo rimanente dell’era di Greg Ryan, ormai agli sgoccioli. 

Questo è ciò che tutti bene o male conoscono della débâcle del 2007 e della discussa e problematica carriera del più grande portiere della storia del calcio femminile con la Nazionale Statunitense. 

Quello che vogliamo raccontarvi oggi però è ciò che è successo quando nessuno guardava, prima e dopo questa partita così fuori dal mondo. Quello che vogliamo raccontarvi è Hope Solo, una delle calciatrici più controverse e sfaccettate del calcio femminile.

Hope Solo non era esattamente ciò che si definisce “a team player”. Per sua stessa ammissione nella sua autobiografia, Solo si definisce una persona fortemente introversa, individualista, che non si relaziona facilmente in un contesto di comunione collettiva ma privilegia le compagnie più ridimensionate, essenziali, familiari. E un’impostazione che non favorisce quello che è il fulcro di un gioco di squadra come il calcio, né aiuta l’inserimento in una squadra come la Nazionale Statunitense Femminile che aveva fatto fin dal principio della “Togetherness” il suo marchio di fabbrica. Ma Hope Solo non credeva in quello spirito, né “idolatrava” quell’iconico gruppo di atlete che erano diventate le nuove eroine della cultura sportiva statunitense alle porte del secondo millennio. Fin dai suoi primi giorni nella Nazionale maggiore, Solo intendeva sfidare le 99ers, conquistare il suo posto in squadra senza chiedere permesso e proseguire per la sua strada in maniera indipendente, rispondendo solo a se stessa e al suo obiettivo.

Ma se da una parte esisteva un gruppo che aveva forgiato con le proprie mani la Nazionale Americana e vissuto fianco a fianco così tante battaglie da spingerle forse inconsciamente a formare un circolo chiuso che difficilmente accoglieva a braccia aperte le nuove leve, dall’altra c’era Hope Solo, una giovane donna che aveva imparato nel modo peggiore a pensare solo a se stessa, a fidarsi solo di se stessa, diffidando di qualsiasi gruppo. Ancora oggi Solo denuncia un ambiente ostile durante i suoi primi anni in Nazionale, un atteggiamento tossico di bullismo perpetrato da un’oligarchia di “mean girls”, ancora oggi Solo appare come un’eterna outsider dello spirito collettivo della USWNT o almeno di ciò che era prima del 2008.

Ma la salute mentale e psicologica con cui Solo si era avvicinata ai Mondiali non dipendeva né dai legami con la squadra né dalla sua personalità introversa. Nell’arco di soli due mesi dall’inizio della competizione infatti, la vita di Hope Solo era stata travolta da due terribili tragedie: la morte di una delle sue migliori amiche e la dipartita di suo padre. In una realtà familiare fatta di ombre, abusi, violenze e bugie, pur essendo in gran parte artefice di questa negatività, Gerry Solo era ancora e sempre il miglior amico di sua figlia Hope, il suo fan numero uno e l’unico che riuscisse a capirla davvero. Oltre tutti gli errori da lui commessi, fuori da tutti gli incubi vissuti fin dalla più tenera età, Hope Solo vedeva ancora in suo padre la persona che più la faceva sentire a casa, quella con cui parlare di sport, della sua carriera, della sua vita e di chi ne faceva parte.

I Mondiali del 2007 erano per Hope il primo traguardo da condividere con suo padre o almeno con il ricordo di lui e del suo sconfinato orgoglio per i successi di sua figlia. Quando Greg Ryan le porta via inspiegabilmente non solo questa possibilità ma anche un posto titolare che Solo aveva guadagnato, la calciatrice è furente ma la situazione peggiora nel momento in cui Ryan le confessa anche di aver preso quella decisione in seguito alle richieste di alcune leader della squadra, nella fattispecie Kristine Lilly e Abby Wambach

La prima reazione di Solo in seguito a questa scelta è estrema ma comprensibile, la seconda più lucida ma deleteria. Tornata in albergo, dopo un legittimo crollo emotivo, il portiere della Nazionale inizia a devastare la sua stanza, lanciando elementi d’arredo in corridoio, mentre la compagna di stanza Nicole Barnhart recupera gli oggetti e le amiche di Solo in squadra provano a calmarla. Ma è la dichiarazione alla stampa che annienta letteralmente il suo equilibrio nella squadra. Vista come un autentico tradimento di tutto ciò che le 99ers avevano costruito, l’affermazione del primo portiere la conduce al centro di un processo che inizia nella sua stanza con un meeting privato con Lilly, Markgraf, Wambach e Scurry e degenera nelle settimane successive.

Se la polemica nei confronti di Ryan era indiscutibile, il riflesso delle sue parole sulla prestazione di Scurry stona a livello personale e professionale, soprattutto nei confronti di una compagna di squadra e di ruolo che Solo aveva sentito particolarmente vicina dopo la morte del padre a causa di esperienze condivise. Solo si mostra sinceramente pentita per la risonanza che le sue parole avevano avuto su Scurry ma le sue scuse non bastano più e il portiere viene del tutto emarginata (solo Carli Lloyd, affine a Solo per personalità, resta al suo fianco) e allontanata da ogni attività di gruppo, compresi i pasti e il viaggio di ritorno dalla Cina. In molte chiedono il suo allontanamento dalla squadra ma Hope Solo è già un pilastro della Nazionale e il suo ruolo non è facilmente rimpiazzabile. Solo prova, anche solo per apparenza, a ricucire alcuni rapporti ma in poche colgono il suo ramoscello d’ulivo, almeno fino all’evento che inverte finalmente la rotta, il licenziamento di Greg Ryan.

Quando la svedese Pia Sundhage viene nominata nuova guida della USWNT e si presenta alla squadra nel ritiro di quattro giorni a Dicembre 2007, supera le distanze culturali e di lingua accompagnandosi con la chitarra sulle note e le parole di “The times they are a-changing” di Bob Dylan e, dopo l’esibizione, quando domanda alle donne della squadra se vogliano vincere, ribatte che per vincere hanno bisogno di un portiere e che non sta chiedendo loro di dimenticare ma di perdonare e andare avanti. L’arrivo della Sundhage appare provvidenziale, così come le nuove leve che porta in squadra, e si ricostruiscono almeno i rapporti professionali con Markgraf, Wambach e Scurry. Ed è con un nuovo entusiasmo che Solo conquista il suo primo grande successo internazionale, vincendo la medaglia d’oro alle Olimpiadi di Pechino: una nuova USWNT era appena nata e Solo era pronta per diventare uno dei suoi leader.

Dal 2008 in poi, Hope Solo non è più un dubbio ma una certezza. Con l’aiuto di un nuovo allenatore dei portieri l’atleta, che non aveva neanche scelto quel ruolo e che si era affacciata al calcio come formidabile attaccante, reinventa la figura del portiere. Pretende di più dalla preparazione atletica, tattica, tecnica e mentale, e forgia un nuovo modello di difensore della porta, regista della backline e creatore di una visione di gioco complessiva. La ritrovata armonia di squadra alleggerisce la condizione psico-emotiva di Solo, che diventa ufficialmente una veterana della USWNT, un leader da seguire sia nella sconfitta onorevole, come nel caso dei Mondiali del 2011, sia nel ritorno alla vittoria, come nei Giochi Olimpici del 2012.

Anche in ambito di club, nasce la moderna NWSL in un nuovo tentativo di professionismo premesso dal massiccio investimento della USSF e nuovi investitori già coinvolti nel calcio statunitense. Primo tra tutti Merritt Paulson proprietario del Portland Timbers e della squadra che in questo modo diventerà il primo vero modello di effettivo professionismo nella lega: il Portland Thorns. Se Alex Morgan era il primo nome sulla lista di Paulson, per sua stessa ammissione Hope Solo era “l’ultima giocatrice che avrebbe voluto vicina alla squadra”. Il portiere troverà poi il suo posto nella diretta rivale di Portland, il Seattle Reign, ma tra una nuova operazione e il trasferimento momentaneo al Manchester City, la sua storia con la squadra di Seattle spiccherà il volo solo nel 2014

Ma proprio tra 2013 e 2014, la vita e la carriera di Hope Solo prenderanno una nuova svolta che si rivelerà contemporaneamente coraggiosa, rivoluzionaria e distruttiva. È a cavallo tra questi due anni infatti che la USWNT riaprirà conversazioni e discussioni riguardanti i contratti delle calciatrici. L’impegno politico di Hope Solo in quella che diventa sempre di più una guerra contro la USSF sembra dispiegarsi su un livello differente da quello delle sue compagne, una diversa lunghezza d’onda per un conflitto che col senno di poi si è rivelato per quell’epoca forse troppo acerbo per ottenere effettivi risultati. 

È nuovamente a livello personale però che Hope Solo torna a far parlare di sé e non per la sua presenza mastodontica in campo. Nel 2014 infatti, Solo viene arrestata e accusata di aggressione ai danni di suo nipote all’epoca diciassettenne, figlio della sorellastra Terry, con cui Solo aveva sempre avuto un rapporto cordiale ma altalenante e problematico, purtroppo un leitmotiv della sua famiglia. Il caso, etichettato come “violenza domestica”, ruotava intorno a un animato litigio, influenzato probabilmente anche dall’abuso di alcool, degenerato in aggressioni reciproche verbali e fisiche. Il caso contro Solo viene archiviato a Dicembre 2014 e il portiere, prosciolta dalle accuse, continua il suo percorso grandioso in Nazionale, da cui non era mai stata allontanata o sospesa proprio perché, fino a prova contraria, vittima a sua volta di un’aggressione. 

Ma l’errore che non può essere scisso dal suo ruolo di leader e punto di riferimento per una squadra di cui ormai Hope Solo era perno fondamentale arriva solo un mese dopo la risoluzione del caso. Proprio durante il tradizionale ritiro di Gennaio della Nazionale Statunitense, base della preparazione per i Mondiali del 2015 che si sarebbero disputati in Canada nell’estate di quell’anno, nonostante i divieti imposti da regolamento, Solo aveva permesso al consorte Jerremy Stevens di farle visita in ritiro e di guidare senza permesso e in stato di ebbrezza un’auto in affitto messa a disposizione dalla Federazione.

A causa di un evidente sbandamento della vettura su strada, la polizia aveva poi fermato la coppia e arrestato Stevens mentre di Solo, passeggero nell’auto, viene descritto un atteggiamento “belligerante” nei confronti degli agenti che avevano condotto l’arresto. Dopo aver evitato qualsiasi provvedimento nei confronti del numero uno della Nazionale in occasione del precedente arresto, la Federazione si ritrova costretta a inizio anno a sospendere ufficialmente il portiere per 30 giorni, in uno dei momenti più importanti per la squadra ora allenata da Jill Ellis. 

Questo rappresenta forse il momento più discutibile dell’intera carriera di Hope Solo, poiché ci troviamo di fronte a una decisione che non può più essere giustificata: le azioni del portiere nel corso di un ritiro fondamentale per la squadra diventano un’ombra per l’intero gruppo e scuotono le dinamiche interne di un team che rischia così di perdere l’equilibrio e l’ordine necessari per raggiungere una concentrazione mentale alla base di una corsa alla vittoria. 

Ancora una volta però, il rapporto tra Hope Solo, la squadra e la Federazione viene ricucito e la USWNT trionfa dopo 16 anni ai Mondiali di Calcio, grazie anche a un’ennesima prestazione superlativa dell’estremo difensore, che si afferma nuovamente come la migliore al mondo nel suo ruolo. 

Nel 2016 la Nazionale che arriva alle Olimpiadi è un gruppo in parte reinventato visti gli importanti abbandoni e in parte travolto e confuso da conflitti interni che proiettano seri dubbi sulla gestione di Ellis. E proprio com’era accaduto nel 2007, quando lo spogliatoio si sfalda, la USWNT crolla sul campo sotto il peso delle sue problematiche interne e per la prima volta, non raggiunge neanche la semifinale del torneo, perdendo ai rigori contro la Svezia di Pia Sundhage durante i quarti di finale.

Nel pre-partita, Ellis aveva predetto un atteggiamento difensivo estremo della compagine svedese, un muro che la USWNT non era stata in grado di abbattere e che aveva condotto, nonostante la superiorità della squadra statunitense, ai rigori finali. E quasi come in un cinico cerchio che si chiude, nel dopo-gara, le affermazioni ai microfoni di Hope Solo la riporteranno proprio al 2007 e questa volta le conseguenze saranno definitive. Amareggiata da un risultato a conti fatti ingiusto, Solo elogia la prestazione della sua squadra ma definisce le rivali vincenti “a bunch of cowards(“un mucchio di codarde”) proprio per la chiusura ermetica che la formazione svedese aveva portato in campo. 

Pressati quindi dalla richiesta di equal pay di cui Solo era a capo (accanto ad altri portavoce della squadra come Becky Sauerbrunn, Megan Rapinoe e Alex Morgan), la US Soccer approfitta dell’ultima polemica scatenata dal portiere per sferrare un colpo decisivo alla ribellione del team, terminando in maniera definitiva il contratto della calciatrice sia per la Nazionale che per la NWSL. L’atleta rinuncia poco dopo al professionismo di club con il Seattle Reign e chiude così la sua carriera. 

Non ci sarà mai un’opinione bianca o nera su Hope Solo, nessun giudizio assoluto su torto o ragione. Hope Solo ha raccontato la sua verità, la sua storia, la sua carriera, il suo sguardo è sempre stato tagliente, senza filtri. Ma questa verità coinvolge troppe voci e troppe vite per poter essere unilaterale, per poter affibbiare il ruolo di vittima o colpevole a una parte anziché all’altra. Hope Solo non ha mai avuto paura di presentare la sua storia in tutta onestà ma quell’onestà appare oggi selettiva o inevitabilmente filtrata dalla sua personalità. 

Hope Solo ha chiuso la sua carriera così come l’aveva cominciata: da leader individualista della sua vita. Ogni trasgressione delle regole, ogni affermazione deleteria per la squadra, ogni testimonianza della sua personalità schietta e indomabile, per quanto legittima e degna fosse, si rivelava una scelta di vita individuale che purtroppo a volte è apparsa noncurante delle conseguenze che si sarebbero riversate sulla squadra. 

Per ciò che ha dato al calcio femminile, alla Nazionale Statunitense e al movimento per l’uguaglianza nello sport, Hope Solo meritava un finale migliore per la sua carriera e per un’esperienza che ha letteralmente riscoperto il ruolo del portiere, dell’eroe che non vince una partita ma la salva, ma questa è forse l’unica certezza in una storia che ancora oggi vive di luci e ombre, di verità e di segreti, di successi e rimpianti. 

Rita Ricchiuti
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