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L’informazione nel calcio femminile. Intervista esclusiva ad Alessia Tarquinio

Chi dice di seguire il calcio femminile, ma di non sapere chi sia Alessia Tarquinio, probabilmente sta mentendo su una delle due. Conduttrice di SkySport durante il Mondiale che ha trainato le Azzurre alla ribalta, ora ha scelto uno stile di vita che la renderebbe la perfetta testimonial del Cynar, l’amaro “contro il logorio della vita moderna”.

Le sue risposte e il fuso orario tra l’Italia e l’isola dei Caraibi nella quale passa buona parte del suo tempo a surfare, fanno molto riflettere su come si possa essere allo stesso tempo cinque ore indietro e anni luce avanti.

Non si può parlare con te senza parlare del Mondiale. Qual è il momento al quale sei più affezionata? 

“Vuoi subito farmi piangere? Sono due in realtà, uno all’inizio e uno alla fine. Il primo è stato sul gol di Bonansea quando Martina Angelini mi ha ripreso mentre piangevo dall’emozione, mentre eravamo in sala trucco subito prima di entrare in diretta. Partire bene ci avrebbe aiutato nel percorso, ma non soltanto da un punto di vista televisivo, avrebbe aiutato la Nazionale e tutto il movimento. Sai, abbiamo sempre fatto la figura di quelli che sembrava dovessero convincere la gente a vendere un prodotto, ma noi ci credevamo davvero e volevamo che anche gli altri vedessero quello che avevamo visto noi e scoprissero quanto di bello ci fosse in quel gruppo. Noi avevamo parlato di valori e di personaggi, ma la prova del nove era far vedere che questa Nazionale a pallone ci sapeva giocare, ci sa giocare. L’altro è tutto l’opposto, quando siamo uscite ho ricevuto una serie di messaggi che dicevano “Adesso tornatevene in cucina”. Eravamo io, Martina, Gaia, Betty Bavagnoli e Cecilia Salvai, e a loro, prima di entrare in studio, ho detto che dovevamo essere felici perché avevamo fatto un bel mondiale, arrivando oltre le aspettative di tutti e soprattutto non volevo che in onda si percepisse né una traccia di delusione né di rabbia. Credo di averlo detto anche in onda a quelli che ci consigliano andare in cucina “Grazie, ma in cucina noi non ci torniamo”, perché ci sono dei posti molti più allettanti dove stare. Poi questa cosa ha avuto un certo riscontro nelle persone, perché non si aspettano mai che tu reagisca in questo modo. Però per noi veramente era una festa, era stata la prima volta di tante cose, quindi, insomma, ci è piaciuto ce lo siamo godute”.

Dopo il mondiale tocca parlare dell’europeo dell’anno prossimo, il tuo undici ideale per l’Europeo?

“Guarda, io non faccio mai nomi. Ma manca un po’ di tempo, quindi penso che Milena Bertolini farà un po’ di cambi e ci saranno delle novità, se rimarrà Milena. Ci sono troppi se”.

Eh si ci sono voci strane in giro

“Eh già da un po’, ma si va anche a cicli. Per cui bisogna vedere cosa succede, ci sono tante ragazze che hanno una certa età, poi che ne sai, magari l’anno prossimo c’è qualcuna che ci sorprende tutti. Quindi io non farei nomi, perché poi dopo magari qualcuno si offende pure”.

Ma guarda non vogliamo far offendere nessuno. Allora facciamo chi inviteresti per un calcetto a cinque?

[ride] “Io una come Daniela Sabatino la prenderei sempre. A parte il fatto che mi fa ridere, per cui la vorrei per mantenere un certo ambiente, perché dai non ci riduciamo come i serioni e seriosi sempre”. 

No, no, per carità. 

“Poi sembra che devi essere sempre, ma anche nella vita, musone per essere preso più sul serio. Per cui io lei me la prenderei sempre, perché è una che, al di là del fatto che non sa una parola di inglese e non può farci da traduttrice, fa squadra. Sa che cosa significa stare in una squadra e soprattutto affrontare partite del genere. Io spero che ci sia possibilità anche per tante giovani ragazze, che il prossimo sia il loro anno davvero. Che poi con l’avvento del professionismo siano avvantaggiate e soprattutto mi auguro, già penso al post europeo, che abbia lo stesso effetto del post mondiale, di più”.

A proposito di professionismo, che dovrebbe partire dalla stagione 2022/2023, secondo te le società stanno facendo abbastanza per arrivarci preparate?

“Non mi occupo di business e io e l’economia siamo agli antipodi, però non è facile gestirlo. Per il primo periodo avranno a disposizione un fondo, quindi riusciranno ad ammortizzare, dopo però il sostegno da chi lo trovano? È facile per le società che hanno una struttura dietro che li aiuta. Bisogna costruire il futuro in un ottica di assistenzialismo, cioè si è deciso che il calcio femminile potesse supportare il professionismo, ma bisogna vigilare. Perché se poi il gap diventa ancora più profondo di quello che c’è già, non va bene. Io spero che il livello si alzi sempre, non solo quello tecnico, ma anche di serietà delle società e che possano competere con gli altri. Perché non credo che, anche da un punto di vista di spettacolo proprio, il fatto che le partite finiscano 7-2 sempre sia indice di qualità. Vorrei che ci fosse un pochino più di competitività, ma questa la ottieni se puoi spendere i soldi nel calciomercato, il professionismo porta anche questo poi”. 

La Serie A la stai guardando da lì quest’anno? 

“Eh guarda no, non riesco, ogni tanto riesco a craccare qualcosa, ma faccio fatica [ride]. Leggo, mi raccontano, però mi sembra che sia più competitivo rispetto all’anno scorso”. 

Sì, la competitività è aumentata, però in Europa facciamo abbastanza fatica. La Juventus ha anche avuto un sorteggio un po’ sfortunato, che con la nuova formula si dovrebbe evitare, ma cosa manca alle squadre italiane per essere competitive anche in Europa? 

“Non vorrei tornare sempre lì, però ci sono società in Europa nelle quali le calciatrici sono considerate professioniste già da tempo e con il calciomercato di quest’estate si sono assicurate le calciatrici migliori. È ovvio che è più facile per le europee andare avanti. Io credo che sia lo stesso discorso del calcio maschile. Alcune nazioni vanno sempre avanti in Champions con molte più squadre perché hanno un vivaio forte, i talenti se li crescono e li vanno a cercare da piccoli. Noi da piccole manco le facciamo giocare tra un po’. Guarda gli Stati Uniti, che è l’esempio lampante, o il Canada. Il calcio per le bambine è uno sport nazionale, è tutto normale, hanno gli spazi, giocano e crescono. È ovvio che tu se hai un bacino molto ampio è più facile trovare fenomeni, ma noi ancora dobbiamo stare a convincere i genitori, e la storia di Olivia l’ha dimostrato, le società, soprattutto quelle piccole di quartiere e di paese, a farle giocare ste bambine e a non indirizzarle alla pallavolo, al nuoto o al resto. Se una bambina vuole giocare, falla giocare, punto, siamo ancora lì. Anche un genitore che ha una figlia che gioca e nota del talento, è più tranquillo sapendo che può guadagnarsi da vivere con quello. Io mi sono sempre fatta questa domanda, pensa in tutti questi anni quante calciatrici brave hanno dovuto smettere perché dovevamo andare a lavorare o dovevano studiare”. 

Come giudichi lo spazio che l’informazione in Italia dedica il calcio femminile?

“Allo sport femminile tutto, poco, troppo poco. Questa è una mia battaglia particolare, non mi stupisce, però mi rammarica. Ora, come te lo dico in modo diplomatico, io ci ho vissuto per anni nelle redazioni, so quali sono i ragionamenti e mi dispiace che la maggior parte delle volte redattori e direttori pensino che dello sport femminile non freghi niente a nessuno, perché succede. Questa cosa mi ha sempre fatto molto riflettere, ed è il motivo per il quale io poi, invece, ho sempre pensato che se ne dovesse parlare spesso e volentieri. Perché poi alla fine non è vero che non interessa a nessuno e non è vero che lo guardano solo le donne. Prendi il tennis, lo sci, il nuoto, quanti sostenitori uomini ci sono. C’è sempre questa idea che lo sport sia fatto da uomini per gli uomini che va un po’ combattuta e si combatte soltanto parlandone. Ma poi di che cosa stiamo parlando? Negli ultimi anni la maggior parte delle medaglie e delle soddisfazioni dello sport italiano sono arrivate dalle donne. Eppure siamo sempre lì a farci problemi su quanto spazio dedichiamo, chi lo legge, perché parlarne, ci vuole un pochino di coraggio. Guarda come abbiamo fatto con Sky, abbiamo iniziato a parlare di calcio femminile e poi tutti sono saliti un po’ sul carro, e mi ha fatto piacere, poi però la gente a poco a poco da questo carro ci è scesa. Ecco io vorrei che non si andasse a periodi, come per le olimpiadi o per gli sport paralimpici, che prima sono “gli eroi degli sport paralimpici” e poi per quattro anni non si sa neanche dove siano finiti. Questa ipocrisia mi irrita. Poi non è che ci fanno una concessione, avete anche un po’ rotto le palle, lo sport fatto da donne esiste, parliamone, punto e basta. Il lettore o chi guarda in televisione penso abbia voglia di varietà, basta impegnarsi per raccontarlo bene”. 

A proposito del modo di raccontarlo, tu hai detto che si usa raccontare il calcio spesso dal punto di vista degli uomini, dando quindi un’unica prospettiva. E’ una cosa che succede solo in Italia o che vedi in generale?

“Credo che all’estero ci sia un po’ meno, ma noi siamo medievali nella maggior parte delle nostre espressioni, quindi facciamo fatica. Non mi piace l’idea che di sport femminile debbano parlare del sole donne, però purtroppo se non lo facciamo noi non lo fa nessuno. Siamo ancora in quella fase per la quale ci dobbiamo aiutare tra di noi per uscirne fuori. Mi piacerebbe di più avere anche un confronto con colleghi uomini che si occupano di questo, perché il confronto arricchisce e dà una visione a 360°, non mi piace la ghettizzazione giornalistica. E allora voi a Sky cosa avete fatto, mi dirai? Esattamente questo [ride]. Ma noi ce ne occupavamo ed eravamo le più specializzate, poi durante il mondiale sono entrati altri telecronisti, si sono preparati e hanno capito come parlare di calcio femminile. Per cui Andrea Marinozzi, che in quel momento per il nostro direttore era considerato il meglio, si è occupato della partita dell’Italia. Quello che c’è di sbagliato è il racconto sempre univoco, raccontiamo una cosa nell’unico modo in cui lo sappiamo fare, perché gli uomini sono abituati a raccontarlo in un certo modo e la gente si è abituata a sentire il racconto degli uomini”. 

Pensi che il modo di trattare gli argomenti sia legato alla sostenibilità economica dei siti e dei giornali?

“Tanto, ma in tutto ormai è così. Infatti bisognerebbe fare una bella analisi sulla qualità del giornalismo sportivo e del giornalismo in generale. L’altro giorno era la giornata mondiale della Libertà di Stampa, noi siamo veramente messi malissimo, ma il dato che mi ha inquietato di più è che in Italia il grosso problema che abbiamo non è tanto la censura quanto l’autocensura. Per cui un giornalista a volte non fa la domanda perché non vuole ledere, ha paura di ritorsioni e io questa la trovo una cosa molto molto grave. C’è da chiedersi quanto siamo liberi di esprimere il nostro pensiero e soprattutto quanto è veritiera l’informazione che riceviamo. E se poi un sito sportivo mette tette e culi tutto il giorno fa solo un trafiletto su tutto il resto che idea dai? Che la donna è quella? È l’oggetto?”

Purtroppo fare diversamente non paga

“Ma non sono neanche tanto sicura che non paghi, ci abbiamo mai provato? Ci vorrebbe un pochettino più di coraggio”.

A te è mai capitato di autocensurarti? 

“No, e infatti sono ai Caraibi” [stavolta rido io]. “Mi conosci, sai che dico sempre quello che penso, mi sono anche scontrata tante volte, ho discusso con diversi personaggi”. 

Tu usi spesso i social per proporre riflessioni su argomenti seri. Come ti sembra sia voluto il rapporto tra cioè i giornalisti e i social?

“Sono strumenti utilissimi, ma il rischio che molti prendano per oro colato quello che c’è scritto su Instagram mi fa paura, soprattutto per le nuove generazioni di giornalisti che devono sempre controllare le fonti, quante volte uno incappa in una cazzata e la riprende. Però sono un ottimo veicolo di trasmissione di informazioni e di riflessione se usati bene. Non mi piace il fatto che molti giornalisti per fare i piacioni e per un like in più, perdano il contatto con la realtà e con il loro primo scopo che è quello dell’informazione”. 

Dai tuoi social si capiscono anche i tuoi gusti musicali. Quindi non faccio autocensura e ti chiedo se secondo te è possibile diventare una calciatrice di serie A senza ascoltare per forza la Pausini, Ultimo o il raggaeton? 

[Ride] “O Gio Evan. Hai ragione in effetti, dai ragazze uscite dal clichè. No ma c’è Prugna dell’Empoli, che si è laureata con una tesi su David Bowie”.

Ho sentito che non ti piace moltissimo la musica che fanno lì.

“Il raggaeton, la cumbia o come si chiama, fa schifo. Ma poi passare il sabato e la domenica qua, che iniziano col party alle 11.00 e finiscono alle 2 di notte, con sta musica tutta uguale”.

A quale concerto andresti post pandemia? 

“Oddio già l’idea di stare in mezzo a troppa gente mi viene l’ansia, perché a me piace stare isolata. Non so, io sono una vecchia anni ‘90, mi piacerebbe andare a un concerto dei Pearl Jam o a uno degli Arcade Fire, perchè piacciono anche a mio figlio e mi piacerebbe andare con lui, o Bon Iver anche”. 

Per far capire a qualcuno che non ti conosce come sei, che canzone gli faresti ascoltare? 

“Io gli farei direttamente fare un viaggio nel tempo negli anni tra il ‘90 e il ‘94 a Seattle, almeno si fanno un po’ una cultura e capiscono tanto”. 

Criticare senza proporre alternative rischia di far scivolare le discussioni nel tifo da stadio. Nonostante questo sia forse uno dei contesti meno lontani da quel tipo di ambiente, sembrava più costruttivo mettere a disposizione una via verso altri orizzonti musicali. Per sintonizzarsi sulla lunghezza d’onda della Tarqui basta cliccare qui.

Il miglior consiglio professionale che hai ricevuto e che ridaresti a tua volta? 

“Quello che mi ha spinto poi a diventare giornalista sportiva, quando ero molto giovane, scrissi a Candido Cannavò, direttore della Gazzetta. Non mi rispose lui, ma mi fece rispondere da Franco Arturi con una lettera. E Arturi fu molto chiaro e mi disse di leggere tanto, soprattutto cose scritte da donne, per farmi un’idea del mondo. Ecco io dico in generale di leggere tanto, non soltanto libri scritti da donne, anche se Virginia Woolf rimane una delle mie scrittrici preferite, e di rimanere umili. Soprattutto in televisione, perché la televisione è una brutta bestia, dopo che vai in onda qualche puntata e magari qualcuno ti riconosce, pensi di essere chissà chi. E allora, visto che non salviamo vite, meglio ricordarsi sempre che noi non siamo i protagonisti, ma la voce che racconta le gesta dei protagonisti. Non diventare mai egoriferiti, perché quello è una rovina. Se sei arrogante e pensi di sapere tutto, la tua vita professionale finirà presto. Invece questo lavoro è bellissimo perché ti dà la possibilità di trasmettere la passione e le emozioni alle persone. Purtroppo si è un po’ persa la parte di ricerca e approfondimento, che secondo me è quella più importante e anche la più bella. Mi piacerebbe che ci fosse un po’ meno superficialità anche nel giornalismo sportivo, andare a raccontare cose che non sono ancora state dette, fare interviste che dicano di più delle cose che già sappiamo. Perché noi ci lamentiamo sempre delle risposte che sono sempre le stesse, ma a volte le domande fanno proprio schifo. Nelle interviste sento le domande senza punto di domanda e mi metto nei panni di chi deve rispondere, quindi un pochino più di impegno non sarebbe male”.

A proposito di libri, tu avresti voluto scrivere un libro sugli abusi nello sport

“Sì e poi l’aveva già scritto Daniela (ndr. Daniela Simonetti, il libro è Impunità di gregge. Sesso, bugie e omertà nel mondo dello sport, edito da Chiarelettere). Sono incappata in una storia di cronaca, poi ne ho lette altre e sono arrivata a lei. Mi sono resa che conto che se una come me, che si occupa di sport da venticinque anni, raramente è riuscita a trovare materiale su questo sommerso, vuol dire che non se ne parla abbastanza, perché i casi ci sono. Se vai a cercare la cronaca ci sono tantissimi casi di adolescenti, maschi e femmine, coinvolti in casi di abusi. Ed è stato inquietante rendermi conto di questo, mi sono fatta delle domande, cioè io dov’ero quando succedevano tutte queste cose? Soprattutto le Federazioni hanno paura di fare brutta figura facendo venire fuori queste notizie, ma io madre sono più contenta di mandarti mio figlio se so che tu hai fatto pulizia, piuttosto che non sapere niente e scoprire dopo le cose”. 

E qua torniamo sulla censura di prima.

“Esatto”.

Un libro che invece hai scritto è quello su Carolina Morace, nel quale hai parlato anche della relazione con sua moglie. Perchè in Italia, rispetto a quanto succede in Europa, vedi Harder e Eriksson, di questo aspetto si fa sempre molta fatica a parlare? 

“C’è sempre un problema di fondo ed è la cultura nostra. Perché tu pensi che nel maschile siano tutti eterosessuali? Non lo dicono perché hanno paura di come i tifosi la prenderanno, perché non vogliono insulti e non vogliono essere visti in modo diverso. Altri invece non vogliono dire alla gente con chi stanno e con chi passano il loro tempo. In effetti io mica vado tutti i giorni a dire che sono sposata e che ho un figlio, per cui alcuni lo vedono come una forzatura. Carolina dice una cosa semplice, lei lo ha sempre nascosto e ha quindi sempre trattato come una relazione di serie B le sue relazioni sentimentali, mentre Nicola l’ha aiutata a gestire la cosa e a viverla con molta più serenità. Io credo che sia sempre l’ambiente che purtroppo ti condiziona e ci vuole una grandissima dose di coraggio. Conta che non tutti sono usciti dal closet, come si dice qua, e che alcuni vogliono farsi giudicare solo per quello che succede in campo, ci sono troppe sfaccettature”. 

Perchè secondo te, anche in Europa, il calcio maschile ha un rapporto con il coming out molto diverso rispetto a quello femminile? 

“Perché loro sono dipinti come gli eroi, trattati come il prototipo del maschio perfetto. Ci sono talmente tante sovrastrutture, talmente tanti livelli da scardinare, c’è un lavoro durissimo da fare, però è anche vero che qualcuno lo dovrà pur fare”. 

Abbiamo parlato un po’ di progetti che hai concluso, ce ne sono alcuni che avevi in mente di fare o che hai accantonato e ti piacerebbe riprendere in mano?

“Partecipare alle olimpiadi come surfista, no dai scherzo. Ho scoperto che mi piace scrivere libri, ho sempre detto che non ne avrei mai scritti, poi, un po’ perché Carolina ha insistito, un po’ perché è capitato, alla fine mi è piaciuto. Mi piacerebbe scrivere libri anche di altre figure femminili, di prendere poco alla volta quello spazio che lo sport femminile si merita. Una volta mi ricordo di aver detto che bisognerebbe parlare di più di sport femminile, poi ho pensato vabbè forse è il caso che lo faccia io”. 

È per questo che hai creato di Rigore? 

“Qualche mese fa Ria Management e Mondo Calcistico mi hanno chiesto di creare un nuovo progetto. Una testata giornalistica, un sito e prossimamente un magazine mensile, cartaceo: di Rigore, che non è solo un nome, è la nostra filosofia e i nostri valori. Vorremmo raccontare lo sport, il calcio, per quello che è: una passione e vogliamo trasmetterla con credibilità, serietà, imparzialità e anche leggerezza, perché no. E parleremo di calcio senza distinguere tra maschile e femminile, sarà calcio e basta. Io sarò la Direttrice di di Rigore e mi riempie di orgoglio ricoprire questo ruolo, mai avrei pensato che qualcuno potesse avere il coraggio di pensare a me! La cosa più interessante però è che per la testata scriveranno tutti ragazzi, daremo loro la possibilità di pubblicare i loro pezzi. Abbiamo pensato ad workshop per prepararli anche, dando strumenti utili per entrare nel mondo del giornalismo”. 

Parlando di coraggio, vista la lettera di Prandelli nella quale dice di non riconoscersi più nel calcio maschile, pensi potrebbe avere il coraggio di lanciarsi nel femminile?

“Cesare! Dai, riprenditi col calcio femminile! Anzi, facciamo un appello, Cesare se tu torni torno anch’io”.

Attenzione, bomba.

“Dai no pensiamo a qualcosa. Visto che alcuni allenatori uomini si approcciano al femminile per fare gavetta e andare nel maschile, invece per tante allenatrici è già un traguardo allenare una squadra femminile, Cesare non ruba il posto a nessuno, però può dare tanto. Quindi lui che parla sempre di valori, che magari sono mancati quando è tornato nel calcio maschile, possiamo dirgli che quella genuinità, quella voglia di imparare e di sacrificarsi che a lui manca, nel calcio femminile ci sono. Quindi, visto che lui adesso coltiva la terra, potrebbe trovare terreno fertile. Diciamo così, Cesare il terreno ce l’hai, te lo diamo noi”. 

Giulia Beghini
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