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Amy Rodriguez: Last player standing – L’ultima sopravvissuta

La carriera di Amy Rodriguez non è un dubbio. Il suo valore in campo non è una novità. Ma qualcosa cambia nel percorso di una calciatrice di alto profilo quando improvvisamente non rientra più nei piani del coach di turno della Nazionale Statunitense.

Mancanti infatti di un’autentica cultura dei club e di una storia profonda che leghi la calciatrice allo stemma che indossa durante una stagione regolamentare, ancora oggi la Nazionale resta la priorità principale per la maggior parte delle atlete. Anche per questo motivo, calciatrici come Rachel Buehler Van Hollebeke e Whitney Engen, pur avendo ancora a disposizione diversi anni di carriera, hanno scelto di appendere gli scarpini al chiodo al termine della loro storia con la Uswnt, intraprendendo poi strade completamente diverse.

Ma anche quando la fine del percorso con la squadra nazionale non porta alla conclusione della carriera agonistica, le calciatrici che scelgono di restare vengono considerate ma forse non viste per davvero, non più.

Amy Rodriguez è una di loro. Il palmarès di Rodriguez farebbe impallidire gran parte delle calciatrici in attività. Proveniente dalla University of South California, l’esperta attaccante era tra le tre più giovani calciatrici ad essere convocate per le Olimpiadi di Pechino nel 2008. Alla conquista della sua prima medaglia d’oro olimpica si aggiunse poi la seconda nel 2012, un argento mondiale nel 2011 e infine una Coppa del Mondo nel 2015. Ma anche nel suo momento migliore con la Uswnt, Rodriguez si dimostrava sempre fortemente impegnata e dedita alla carriera in NWSL, con la stessa determinazione e la stessa voglia di vincere. Perché vincere è ciò che le riesce meglio, come dimostrano i due titoli nazionali conquistati con il FC Kansas City nel 2014 e nel 2015.

Nonostante la dedizione totale alla sua carriera nel calcio però, Rodriguez non ha mai messo in pausa la sua vita personale, una scelta per una donna che ancora oggi appare “rischiosa” e che lo era ancora di più in passato. 2013 e 2016 infatti sono anni in cui Rodriguez non colleziona presenze in seguito alle sue due gravidanze e alla nascita dei suoi due figli, ma la pausa peggiore arriva nel 2017 quando la calciatrice affronta la rottura del legamento crociato anteriore. È quest’ultimo stop ad allontanarla sempre di più dai progetti della Nazionale, a cui torna per poche presenze ancora prima di essere esclusa definitivamente.

Ma c’è qualcosa di unico nella personalità di Rodriguez, una dote che supera le sue evidenti abilità nel calcio, una mentalità che non si può acquisire con l’allenamento. È l’irriducibilità, è la capacità di tornare costantemente dopo ogni battuta d’arresto, di rialzarsi dopo ogni caduta ma soprattutto di resistere, a ogni capovolgimento di fronte che inevitabilmente avviene in una realtà ancora precaria come quella del calcio femminile.

Se volessimo aprirci alla poesia, potremmo quasi affermare che Amy Rodriguez ricorda un po’ la ginestra leopardiana, così tenace e caparbia nella sua sopravvivenza anche negli ambienti più ostili. Rodriguez ha superato i pregiudizi che naturalmente hanno seguito le sue gravidanze, ha superato un infortunio che affrontato a 30 anni avrebbe potuto mettere fine alla sua carriera, ha superato la mancanza di fiducia di un’allenatrice che non ha più visto in lei una risorsa per la Nazionale. E ogni volta Rodriguez è tornata in campo, con lo stesso orgoglio, lo stesso stoicismo.

E nonostante la sua titanica resistenza, anche il percorso tra le squadre di club non è stato sempre facile, poiché proprio nell’anno dell’infortunio, il Kansas City abbandona la NWSL e nel 2018, pronta a tornare, Rodriguez si ritrova a dover ricominciare da zero con una nuova squadra, lo Utah Royals FC. E non si parlava solo di avviare una nuova avventura calcistica, si trattava di dover reinventare la sua quotidianità, di dover vivere da mamma single per buona parte del tempo a causa della distanza da suo marito, di dover equilibrare la priorità di essere madre con la determinazione di affermarsi come la calciatrice migliore che potesse essere.

Ma “ARod” non si guarda indietro, non permette al dubbio di rallentarla, non lascia che una barriera diventi un ostacolo ma la abbatte, a spallate se serve, pur di tornare lì dove appartiene, sul campo, nel calcio giocato. Lo Utah Royals riesce a mettere insieme un bel roster, l’expansion draft e il precedente abbandono di Kansas City portano nello Utah Becky Sauerbrunn, Christen Press e Kelley O’Hara, accanto a Veronica Boquete. E tra questi nomi a volte, quello di Amy Rodriguez passa quasi in secondo piano, come se fosse semplicemente scontato che lei fosse lì. Ma non c’è nulla di scontato in Rodriguez.

A testa alta ma con una dedizione al lavoro incessante e infaticabile, Amy Rodriguez trascina la squadra pur rimanendo nell’ombra. La sua attitudine in campo è aggressiva, irriducibile, ribelle, quasi brutale a volte. Sauerbrunn dirà di lei che la sua testardaggine nel fare sempre e comunque ciò che decide toccava spesso le corde della sua pazienza da capitano. E il fuoco con cui alimentava ogni sua presenza in campo poteva divampare e perdere il controllo senza troppi preavvisi, come nell’episodio dell’accesa discussione con Emily Sonnett e Lindsey Horan nel 2019, durante la partita in casa contro il Portland Thorns.

Ma Rodriguez è così, indomabile, fiera, orgogliosa, lasciando però sempre ogni contrasto e ogni avversità sul campo, lì dove tutto era cominciato, lì doveva finire.

Il 2020 è per le Royals un anno drammatico, forse più di qualsiasi altra squadra. La pandemia non ha reso le persone migliori ma negli Stati Uniti ha forse scoperchiato un paio di vasi di Pandora. Dell Loy Hansen e l’allora coach Craig Harrington si erano rivelati protagonisti e fautori di un ambiente tossico, sessista e razzista, che aveva attanagliato e travolto la squadra dello Utah. La pandemia aveva annullato la stagione regolare di NWSL, dando origine invece alla prima edizione della Challenge Cup. E gli infortuni, i timori, i dubbi e le vite private avevano letteralmente svuotato il roster delle Royals di tutte le punte di diamante.

Nella “bolla” dello Utah, tra l’ondata di contagi da COVID, le temperature estive e il terreno sintetico in grado di bruciare letteralmente la pelle delle calciatrici, Amy Rodriguez è l’ultima sopravvissuta dello Utah Royals. I suoi figli restano a bordocampo durante gli allenamenti affinché lei possa sorvegliarli mentre si prepara, mentre gestisce e guida la sua squadra da Capitano, un ruolo che le spettava da sempre.

Le sorti delle Royals non possono essere favorevoli, non con le condizioni in cui ormai la squadra versa, ma ARod non si arrende mai, non abbandona il campo, non abbandona il gruppo, che invece richiama intorno a sé, anche dopo il triplice fischio.

E come se nella sua carriera non ci fossero già stati abbastanza imprevisti, Rodriguez alla fine perde definitivamente la squadra, in seguito all’impossibilità del club di sostenere la permanenza in NWSL. A 34 anni, sarebbe stato anche solo legittimo per Rodriguez dire basta. Il roster però viene trasferito a una nuova gestione, una vecchia conoscenza in realtà per la lega ma soprattutto per ARod stessa. Torna in campo il Kansas City, adesso con il nome ufficiale di Kansas City NWSL. E nel frattempo il mondo ricomincia a girare, una seconda edizione di Challenge Cup viene organizzata mentre una stagione regolamentare è pronta a partire.

Amy Rodriguez però è nuovamente sola. Press, Sauerbrunn, O’Hara, Boquete e anche la matricola Tziarra King hanno lasciato la squadra e il Kansas City deve ripartire da zero, Rodriguez deve ripartire da zero. Ma se qualcuno può riuscirci, ancora una volta, è soltanto lei.

La formazione del Kansas City è acerba, disorganizzata, debole nel gioco, immatura nella mentalità. Ma Amy Rodriguez scende nuovamente in campo, come se fosse la prima volta, come se fosse l’ultima battaglia.

Nelle prime due partite della seconda edizione di Challenge Cup, il Kansas City NWSL guadagna solo un punto e solo due reti vengono messe a segno, le prime due reti in assoluto della nuova storia di questa squadra e la firma non poteva essere di nessun’altra se non la sua, sempre e solo Amy Rodriguez.

Rodriguez prende la squadra sulle spalle, la sua visione di gioco non viene spesso capita e sostenuta dal resto della formazione, la sua esperienza è di un altro livello.

Nella partita inaugurale contro il Portland, ARod segna d’esterno al volo, raccogliendo in area all’improvviso e con incredibile rapidità un pallone lasciato incustodito in un momento di confusione. Nella gara contro il Chicago Red Stars, approfitta di un’incomprensione tra difesa e portiere avversari e lo fa con quella rabbia agonistica che la caratterizza. Corre, punta il pallone come un predatore con la sua preda, travolge Sarah Gorden nel suo passaggio, non perde lucidità, non le manca la tecnica. Un colpo leggero sotto la palla che si alza quanto basta per superare Alyssa Naeher e depositarsi in rete alle sue spalle.

Anche l’azione dell’immediato pareggio del Chicago è sintomatico dell’importanza di Amy Rodriguez in campo e della mancanza di supporto che purtroppo al momento trova nella squadra. Rodriguez recupera palla a centrocampo, la affida a una compagna, imposta l’azione con fulminea visione di gioco e poi scatta subito in avanti aggirando la copertura avversaria. Ma il pallone resta lì, nessuno lo conquista e il possesso riparte dal Chicago che in quel momento dà avvio all’azione da gol. Rodriguez si ferma, in parte rassegnata, in parte disillusa forse.

Amy Rodriguez è la quintessenza del capitano, l’emblema dell’atleta guerriera, non perfetta, non sempre affabile, col fuoco negli occhi e la rabbia agonistica di chi affronta ogni partita come se fosse l’ultima. Ma ARod è l’ultima sopravvissuta, è “one player team”, è la calciatrice che è rimasta a reggere il forte quando tutti sono andati via. E se a 34 anni questo è ciò che può ancora offrire senza una squadra a sostenerla, mi chiedo quanto ancora potrebbe dare in una formazione come quella della Nazionale Statunitense.

Rita Ricchiuti

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