Cecilia Salvai e Valentina Giacinti

Cosa cambia realmente con l’introduzione del professionismo nel calcio femminile? Tutto quello che c’è da sapere su norme, contratti, tutele, stipendi e costi per le società

L’avvento del professionismo nel calcio femminile è stato uno dei temi più caldi in questo 2020 funestato dalla pandemia. Un appuntamento agognato da molti, ma sempre rinviato a data da destinarsi per diversi motivi. Ora finalmente c’è una data. Secondo una delibera della FIGC a partire dalla stagione 2022-23 tutti i club di massima serie saranno professionisti.

Tra slanci trionfalistici, clamore mediatico e qualche immancabile polemica si è creata un po’ di confusione nel susseguirsi del tam tam di notizie. Cerchiamo di fare un po’ di chiarezza.

Dal punto di vista legislativo ci sono stati due interventi. Il primo nel dicembre 2019, con un emendamento alla legge di bilancio, a firma Nannicini-Matrisciano. L’emendamento prevedeva, per il triennio 2020-2022, un accantonamento di 10,7 milioni di euro (2,9 per il 2020; 3,9 per il 2021; 3,9 per il 2022) a copertura di uno sgravio fiscale, fino a un tetto massimo di 8.000 euro annui, per quelle società che avessero stipulato con le proprie atlete un contratto di lavoro sportivo.

Questo intervento è stato assorbito e superato da un altro emendamento, sempre a firma Nannicini, al decreto rilancio di novembre 2020. La somma accantonata per gli sgravi fiscali confluisce in un fondo triennale, al quale possono accedere le federazioni che deliberano il passaggio al professionismo femminile. Nello specifico si può accedere al fondo per l’anno 2020, per far fronte alle ricadute dell’emergenza sanitaria da Covid-19. Interventi a sostegno al reddito e alla tutela medico-sanitaria delle atlete o per lo svolgimento di attività di sanificazione delle strutture sportive e di ristrutturazione degli impianti sportivi. Negli anni 2021 e 2022 le finanze del fondo potranno essere utilizzate per la riorganizzazione e il miglioramento delle infrastrutture sportive, per il reclutamento e la formazione delle atlete, per la qualifica e la formazione dei tecnici, per la promozione dello sport femminile, per la sostenibilità economica della transizione al professionismo sportivo e per l’allargamento delle tutele assicurative e assistenziali delle atlete.

È chiara la volontà del legislatore di non voler imporre il professionismo femminile in maniera coatta da un punto di vista normativo, ma di intervenire per favorire le condizioni all’introduzione e allo sviluppo di tale regime. Così come già avveniva con la legge 81/91, viene salvaguardata l’indipendenza delle federazioni, lasciando loro la facoltà di riconoscere lo status di professionista ai propri tesserati: donne e uomini.

Bisogna rimarcare che l’iter legislativo non è ancora compiuto. Il Ministro dello Sport, Spadafora, auspica che il percorso iniziato possa concludersi entro gennaio 2021.

I prossimi due anni rappresenteranno una fase di transizione assai delicata, da affrontare con estrema prudenza e chiarezza. Ne è ben consapevole Ludovica Mantovani, presidente della Divisione Calcio Femminile: “L’emendamento è rivolto a tutto lo sport femminile. Bisognerà capire come, in questi due anni, i fondi messi a disposizione potranno essere suddivisi, quali saranno per il calcio femminile e quali per altri sport, anche se non mi risulta si siano affacciate altre discipline[…] Il fatto nuovo è quindi il Consiglio Federale che ha avallato una norma progettuale, ossia adesso abbiamo una data nella quale farci trovare pronti. Quando si fanno i calcoli, però, bisogna farli bene.[…] In Italia parliamo di due anni di aiuti. Cosa succederà al terzo in termini di tassazione? Non partiamo comunque da una tabula rasa ma di un percorso già tracciato attraverso il sistema di licenze nazionali che abbiamo messo a punto”.

Nel passaggio dal dilettantismo al professionismo cambieranno molte cose sia per le atlete che per le società sportive. In buona sostanza le calciatrici potranno contare su tutta una serie di tutele, legali e sanitarie, che adesso non possiedono, i cui costi graveranno quasi interamente sulle società sportive.

Nella realtà odierna, con le calciatrici relegate allo status di dilettanti, il rapporto tra queste e le società sportive non viene normato attraverso la stipula di un contratto di lavoro, ma di un semplice accordo economico. Ciò comporta che le atlete possono essere retribuite secondo diverse modalità: un rimborso spese e indennità di trasferta, che non può superare la cifra di 61,97 o di 77,47 euro al giorno, a seconda che si tratti del periodo di preparazione o della stagione agonistica; un rimborso forfettario annuale diviso in 10 mensilità dell’importo massimo di 30.658 euro all’anno. Nel secondo caso è possibile stipulare un accordo economico pluriennale per un massimo di tre anni, che consente di aggiungere alla cifra annuale pattuita, la corresponsione di un ulteriore bonus. Poichè non c’è forma di lavoro subordinato, alle calciatrici è preclusa la possibilità di accedere in futuro alla pensione erogata dallo stato.

In caso di maternità le atlete non hanno alcuna forma di tutela e i loro accordi possono essere risolti dalle società di appartenenza. Dal 2017 possono però accedere al Fondo Unico per il Potenziamento dello Sport Italiano, che prevede l’erogazione di un rimborso di 1000 euro al mese per 10 mesi. Ogni società sportiva è tenuta ad assicurare le proprie tesserate in caso di infortunio, secondo una convenzione stipulata dalla LND con Generali Italia.

Completamente diverso lo scenario che si aprirebbe con il professionismo. Per prima cosa si stipulerebbe un contratto collettivo di lavoro, che disciplini il trattamento economico e normativo dei rapporti tra Calciatori professionisti e Società, chiarendo diritti e doveri di ambo le parti in causa. Le calciatrici potrebbero quindi stipulare un contratto di lavoro con le società sportive, diventando dipendenti delle società e godendo di tutti i diritti e le tutele del caso in ambito legale e sanitario. Ogni società sportiva dovrebbe stipulare un’assicurazione sanitaria, non più collettiva, ma individuale per ciascuna delle proprie tesserate. Ovviamente trattandosi di un contratto di lavoro subordinato, le società saranno tenute a versare i contributi alle proprie calciatrici, che potranno così beneficiare della pensione statale, seguendo la normativa vigente.

È complesso poter valutare in maniera globale l’aumento dei costi che dovrebbero sostenere le società nel passaggio al professionismo. Ciò che si può fare è quantificare l’aggravio del costo del lavoro. I versamenti Irpef rimangono sostanzialmente invariati, seguendo gli scaglioni nazionali con l’aggiunta delle addizionali regionali e comunali. L’unica differenza è che il regime dilettantistico può godere di un’esenzione globale sui primi 10.000 euro annui. Il peso maggiore è dato sicuramente dai versamenti contributivi e per il fondo di fine carriera.

Per quanto riguarda i contributi la tassazione varia secondo il salario percepito: per quanto riguarda salari lordi fino a 47.379,00, si dovrà versare una percentuale del 33% (il 9,19% a carico della calciatrice e il restante 23,81% a carico della società); a euro 47.379,00 ad euro 103.055,00 si verserà il 34% (10,19% calciatrice, 23,81% società); da euro 103.055,00 ad euro 751.278,00 il 3,10% (2,10% calciatrice, 1% società). Per il fondo di fine carriera per salari fino a 103.055 euro annui si verserà il 7,5% di cui l’1,25% è a carico delle calciatrici e il 6,25% della società.

Per comprendere meglio queste cifre, bisogna pensare che a parità di compenso netto percepito da una calciatrice, nel passaggio da dilettante a professionista, lo stesso ingaggio costerebbe alla società sportiva dal 37 al 58% in più.

Il professionismo non comporterà solo costi aggiuntivi per i club, ma porterà anche qualche vantaggio. Sarà più semplice il tesseramento delle atlete extracomunitarie, che potranno ottenere il permesso di soggiorno per lavoro, mentre al momento le società sono costrette a barcamenarsi tra visti turistici o permessi per motivi di studio.

Non è ancora chiaro se i club potranno beneficiare del cosiddetto decreto dei rimpatriati, ovvero un regime fiscale agevolato per lavori impatriati introdotta dal Decreto Crescita del 2019. Tale decreto prevede che i lavoratori che spostano la propria residenza in Italia, dopo aver risieduto nei due anni precedenti all’estero, possono godere di un regime fiscale agevolato, che sotto determinate condizioni può variare tra il 50% e il 90% di decontribuzione. Con una nota sul finire del 2020 l’Agenzia delle Entrate ha momentaneamente sospeso l’applicazione di tale decreto a tutti i lavoratori sportivi.

Un’opportunità, ma anche un rischio sarà dato dalla compravendita delle calciatrici: con l’avvento del professionismo il calciomercato potrà rappresentare una fonte di guadagno, se le società saranno in grado di sfruttarla a dovere.

Il cammino dal mondo dei dilettanti a quello dei professionisti è appena all’inizio e la strada da percorrere è lunga e piena di insidie. Con tutta probabilità ci sarà un’ulteriore spinta del movimento femminile verso i club professionisti maschili, che al momento sembrano gli unici in grado di affrontare le maggiori spese che un club professionista comporta. Non sono mancate e non mancheranno in futuro le polemiche e le proteste, ma oramai non è più tempo per slanci nostalgici di un passato che non c’è più. Non è tempo di querule lamentele.

Il professionismo non è certo la panacea di tutti i mali. Non è nemmeno un traguardo da raggiungere. È soltanto una via scelta per innalzare lo status qualitativo del movimento femminile e per incrementarne lo sviluppo nel più breve tempo possibile. È solo una parte del gran lavoro globale che si deve affrontare: dal calcio di base a quello d’elite.

Bisogna ponderare e scegliere bene i prossimi passi.

Paolo Di Padua
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Foto: AC Milan

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