Calcio femminile

“Essere nient’altro che se stessi in un mondo che fa di tutto, giorno e notte, per farti diventare qualcun altro, vuol dire combattere la battaglia più difficile che un essere umano possa affrontare. Senza smettere mai di lottare”

E.E. Cummings

Ho sempre creduto in questa citazione, forse perché indipendentemente dal background culturale e sociale di ognuno, tutti noi tante volte affrontiamo davvero una battaglia quotidiana per non rinunciare alla persona che siamo o che vogliamo essere per conformarci a ciò che l’opinione altrui vorrebbe che fossimo.

E senza prenderci troppo in giro, per le donne, anche per le più privilegiate poiché nate in un tempo e in un luogo più “amichevole” al vaglio della società, questa battaglia è doppiamente più difficile perché fin dalla più tenera età il nostro sesso nasce con una serie di regole di comportamento da rispettare, regole fisiche, attitudinali, intellettive e psicologiche che non a caso ci rendono infine il celeberrimo “gentil sesso”.

Nel tempo abbiamo osato sfidare i più grandi divieti che legittimamente ci erano stati posti: abbiamo voluto la libertà d’espressione, di voto, addirittura di esercizio di una professione, ma poi abbiamo esagerato e abbiamo anche voluto giocare a calcio. E quando è troppo è troppo.

“Perché ancora oggi si sente la necessità di porre questa domanda a una bambina/ragazza che gioca a calcio? Non c’è una motivazione alla passione: questa nasce con te, fa parte di te e chiede semplicemente di potersi esprimere senza alcuna resistenza esterna”

Milena Bertolini, CT della Nazionale Italiana Femminile di Calcio

Il calcio, che venga praticato da uomini, donne, bambini, cani o pinguini subequatoriali, è una delle massime espressioni di libertà, di comunione, di passione e di uguaglianza, il calcio è una fuga dalla realtà, per questo ci manca così tanto, perché il calcio non si è mai fermato, non è mai mancato, non ci ha mai abbandonato.

Ma per le donne, il calcio è anche di più. Fin dai suoi esordi, il calcio femminile ha rappresentato tutto ciò che ho prima raccontato ma è stato anche un campo di battaglia, non contro la squadra rivale ma contro il pregiudizio, lo stereotipo e l’opinione comune per cui questo sport non fosse un “giuoco per signorine”.

Quando una donna scende in campo, lo fa come un gladiatore nell’arena, con la consapevolezza di dover dimostrare non solo il suo valore ma anche il merito di essere lì, per poter essere considerata infine davvero un’atleta e non una ragazza che prende a calci un pallone. Praticamente come in Italia sono a tutti gli effetti considerate le nostre Azzurre, provenienti da un’esperienza mondiale a dir poco strabiliante ma non ancora professioniste.

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Ma in realtà, come ho già anticipato, nonostante un’effettiva differenza di scenari e possibilità, tutte le donne che inseguono questa assurda e immorale decisione di giocare a calcio sono inevitabilmente costrette a dover attraversare cerchi di fuoco prima di entrare in campo, non prima di aver spezzato a mani nude le catene che ci vogliono in ruoli più consoni per la nostra leggiadria.

Il libro “Le pioniere del calcio” di Giovanni Di Salvo mi ha illuminato particolarmente non tanto sull’aspetto storico delle battaglie affrontate dal calcio femminile quanto sulla contemporanea attualità delle medesime, anche lì dove ci aspetteremmo una situazione completamente diversa.

La propaganda fascista infatti, in Italia, negli anni 30, affermava che il calcio fosse “uno sport che piace specialmente quando è giocato bene, quando raggiunge quelle vette di stile e di potenza alle quali la donna non può, per la sua stessa costituzione, arrivare”.

Mi sono domandata quindi dove, recentemente, avessi letto praticamente le stesse parole comparse quasi un secolo fa sul giornale “L’Ora” e poi ho ricordato: il testo della difesa redatto dagli avvocati della Federazione Calcio degli Stati Uniti D’America (USSF) nella causa mossa dalla USWNT (Nazionale statunitense femminile) contro la federazione per discriminazione e richiesta di paga equa cita testualmente: “The overall soccer-playing ability required to compete at the senior men’s national team level is materially influenced by the level of certain physical attributes, such as speed and strenght, required for the job”. E siamo al limite dell’obbrobrio se pensiamo che a un secolo di distanza dal fascismo, la più grande argomentazione che si porta a sostegno della tesi per cui il calcio è uno sport da uomini forti enunci che le donne non sono abbastanza meritevoli di giocare a pallone o di percepire una paga equa fondamentalmente perché sono … donne.

Non è concepibile, ora come allora, che le differenze biologiche tra un uomo e una donna costituiscano un deterrente nella lotta femminile per la parità di possibilità e retribuzioni per uno stesso lavoro. L’abilità che la Federazione Calcio Statunitense “richiede” alle donne in nome di una paga equa è la stessa che la USWNT ha dimostrato sul campo dal 2015 al 2019, disputando 111 partite contro le 87 degli uomini nello stesso periodo di tempo ma conquistando 2 Coppe del Mondo, obiettivi per i quali si sono preparate negli anni usufruendo di risorse e strutture di seconda classe rispetto a quelle riservate agli uomini.

E non contando i diritti di trasmissione televisiva e di sponsorship, al netto delle entrate provenienti dalle partite, la Nazionale Femminile ha portato nelle casse della Federazione negli ultimi 4 anni ben 85 milioni di dollari contro i 75 generati dalla Nazionale Maschile, che solitamente usufruisce proprio di bonus in sponsor e diritti televisivi di competizioni quali i Mondiali a cui nel 2018 non si sono neanche qualificati ma per cui era già pronto un premio complessivo di 38 Milioni di dollari.

Si obietterà, come il giudice Gary Klausner ha fatto nell’analisi preliminare delle accuse presentate dalla USWNT per il processo, che la Nazionale Femminile Statunitense ha a tutti gli effetti guadagnato di più della controparte maschile nel periodo 2015-2019 (presentando numeri fortemente dubbi), con un contratto differente che la stessa squadra femminile ha accettato nel 2017 e che prevede uno stipendio fisso di circa 100Mila Dollari (+67Mila circa per militare nelle squadre di club della NWSL) con bonus addizionali che il contratto “a partita” degli uomini non prevede.

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Che sia ben chiaro però che in nessun caso il guadagno presumibilmente superiore delle donne in questi anni è avvenuto in condizioni di parità: l’unica ragione per cui la USWNT potrebbe aver guadagnato più della squadra maschile dipende esclusivamente dal numero di partite giocate e soprattutto dai successi raggiunti in ben due competizioni mondiali consecutive, tra qualificazioni, fasi a gironi e turni ad eliminazione diretta, con aggiunta di campionati NWSL.

A parità di risultati (nulli) e di partite giocate dalla Nazionale Maschile, le calciatrici della Nazionale Statunitense avrebbero solo guadagnato lo stipendio fisso, i cui bonus addizionali riguardano questioni come la maternità (di cui gli uomini non devono preoccuparsi) e gli infortuni (più frequenti anche a causa delle svariate partite disputate su terreni sintetici, su cui i calciatori non hanno mai messo piede). Questa non è parità.
Ma non è solo per una retribuzione equa per uno stesso lavoro portato a compimento con risultati più soddisfacenti che le donne nel calcio stanno combattendo, è una lotta più radicata, più atavica, più intrinseca alla gerarchia sociale esistente, la lotta per legittimare il proprio posto in quello sport, alla pari dell’uomo.

Questa è la discriminazione alla base del dispari trattamento delle calciatrici rispetto alla controparte maschile, l’insita e mai estirpata convinzione che il posto della donna non sia nel mondo dell’uomo.

Negli anni ’30, in Italia, nasce il primo “gruppo” di calciatrici in seguito a una lettera-annuncio pubblicata e immediatamente ridicolizzata dal giornale il “Littoriale” (nome de “Il Corriere dello Sport” sotto l’egida fascista), ad opera di una ridotta selezione di donne milanesi che sfidano apertamente il pregiudizio e lo scherno dell’opinione pubblica con questa “bizzarra idea di voler giocare a pallone”.

Le sorelle Boccalini, Rosetta e Luisa, Bedetti, Strigaro, Mantoan e Bolzoni sono solo alcuni dei nomi delle 13 donne che, sostenute e supportate dal cavalier Ugo Cardosi, danno vita al Gruppo Calcistico Femminile, che presto inizia a crescere tanto da riuscire a formare due squadre interne, attirando su di sé l’attenzione e inevitabilmente anche la feroce opposizione della gretta mentalità dell’uomo medio.

I commenti si sprecano dinanzi alla fioritura del calcio femminile, presentato e raccontato con pregiudizi, vezzeggiativi offensivi e cliché ritenuti tipici del genere femminile mentre solo “Il Calcio Illustrato” offre una visione e una panoramica rispettose del progetto corredate di approfondimenti professionali e informativi. Ma è la professoressa Strigaro in realtà, in una pronta risposta all’ennesima invettiva de “Il Littoriare” a esprimersi in modo tale da evidenziare l’attualità di questo problema al giorno d’oggi, riconoscendo ed evidenziando quella che definisce la “congiura del silenzio dei grandi quotidiani sportivi”. Ancora oggi, in Italia, considerata la portata dell’interesse e del ruolo del calcio nella nostra società e nella nostra cultura, il calcio femminile è ampiamente ignorato tanto da restare ancora in silenzio di fronte al diritto principale delle calciatrici di raggiungere lo status di professioniste, come il Capitano della Nazionale Sara Gama ha a gran voce richiesto, a nome di tutta la Nazionale Femminile, in seguito alla straordinaria prova dei Mondiali, dove le Azzurre hanno affrontato e superato una Nazionale comprendente nomi del calibro di Sam Kerr, Ellie Carpenter e Hayley Raso.

Max David all’epoca scrisse del gioco del Gruppo Calcistico Femminile che era “per la verità, sciolto, brillante e soprattutto gentile. Né la femminilità delle giocatrici è apparsa diminuita. Al calcio femminile non mancano le possibilità anche perché presenta nuovi e interessanti lati sportivi” mentre la propaganda fascista, in comunione con quella cattolica, affermava che “quando sentiamo che una donna vuole dedicarsi al calcio non solo come spettatrice ma bensì come giuocatrice, allora ci si rizzano i capelli”, una frase che può apparirci tanto lontana e retrograda ma che invece a conti fatti non dista poi tanto dalle affermazioni di Fulvio Collovati, in diretta sulla Rai, sulle donne che “quando parlano di tattica mi danno il voltastomaco”.

Quando una donna entra in un mondo fatto di uomini deve costantemente dimostrare di meritare quel posto, anche alla stregua del più immeritevole di loro, e deve farlo in silenzio ma soprattutto ci si aspetta che lo faccia esattamente come un uomo dovrebbe, con stoicismo e aggressività. La Gazzetta dello Sport scrisse, di una delle prime partite ufficiale tra le due squadre formatesi nel Gruppo Calcistico, che in seguito a uno scontro di gioco “dalla bocca della bianconera esce ancora un poco di sangue: un colpo di spugna e tutto, infine, è passato”, un’immagine che mi ha ricordato Samantha Mewis alle prese con una relativa emorragia nasale che chiede di accelerare le cure mediche per poter riprendere il suo posto in partita, durante quella che in realtà era solo una semplice amichevole in seguito alla vittoria dei Mondiali di Francia 2019.

Nell’Ottocento, John Stuart Mill scriveva che non dovremmo decretare “che il fatto d’esser nato femmina, piuttosto che maschio, debba decidere della sorte di un individuo per tutta la di lui vita, più che non il fatto d’esser nato nero piuttosto che bianco, o plebeo piuttosto che nobile”, e solo pochi mesi fa, dopo l’ennesimo trionfo in quel torneo nato appositamente per celebrare il diritto delle donne a inseguire il proprio sogno qualunque esso sia, la “She Believes Cup”, Megan Rapinoe ha affermato per l’ennesima volta “You are not lesser just because you’re a girl. You are not better just because you’re a boy” (“Non sei inferiore solo perché sei una ragazza. Non sei migliore solo perché sei un ragazzo”), e questa è l’unica verità senza tempo che la nostra società dovrebbe finalmente iniziare ad assimilare come parte integrante della propria costituzione.
Il posto di una donna è ovunque lei voglia essere, il posto di una calciatrice è su un campo di calcio.

Rita Ricchiuti
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