Nadia Nadim

Non tutti i supereroi indossano un mantello, alcuni di loro indossano una divisa di calcio. Tante volte diamo per scontato questo sport, anche qui in Italia dove in realtà è parte integrante della nostra cultura quotidiana e collettiva, il calcio è diventato una tale abitudine che a volte non riusciamo più a vederlo in prospettiva e ad ascoltare le storie che ancora può raccontarci.

Accecati purtroppo dalla preponderante componente maschile che da sempre “monopolizza” questo sport, troppo impegnati a lamentarci degli stipendi miliardari e dei privilegi che questa professione ora comporta, non vediamo ciò che resta nell’ombra, non consideriamo davvero il superpotere che il gioco del calcio custodisce.

Ed è in quell’ombra che nasce la storia di Nadia Nadim, è con questa storia che il calcio smette di essere “solo” uno sport e diventa un supereroe in grado di cambiare una vita e ispirare una generazione. A Nadia Nadim era proibito sognare. In una realtà che oggi ci va così stretta e che ci limita l’assoluta e totale libertà a cui siamo normalmente abituati, rimette tutto in prospettiva immaginare un tempo tanto difficile da spegnere i sogni di una bambina, che in fondo non aveva neanche il tempo di sognare, troppo occupata a fuggire dal suo paese e dalla sua casa per provare almeno a immaginare un futuro, un qualsiasi futuro.

Quando Nadia ha lasciato l’Afghanistan con sua madre e le sue sorelle, ha lasciato indietro anche l’innocenza che spetta di diritto a una bambina di circa 8 anni, la normalità di un’infanzia libera, di un’educazione regolare che a sua madre avevano negato, di una quotidianità che forse in quanto donna non sarebbe stata tra le più facili in quella nazione ma che Nadia avrebbe almeno dovuto avere la possibilità di scegliere. Ciò che purtroppo Nadia non ha lasciato alle spalle quando è stata costretta a fuggire è il ricordo della morte di suo padre, un generale dell’esercito afghano assassinato in guerra dai Talebani.

No, a quella bambina non era concesso sognare e in fondo, anche se avesse voluto, forse in quel momento non ne sarebbe stata capace perché il suo incubo era Come in una favola moderna, il sogno di Nadia Nadim è un desiderio diventato realtà. Scissa tra una divisa e un camice bianco, Nadia ha scelto entrambi e ha conquistato ciò che aveva sempre voluto: una possibilità fin troppo reale, inimmaginabile onestamente anche per chi come me adesso ne parla ma senza sapere davvero cosa significhi essere privati anche della propria immaginazione.

Nadia Nadim non aveva possibilità di scelta. Era affamata, confusa, spaventata, in un viaggio senza una reale meta, perché il traguardo non era la destinazione ma allontanarsi il più possibile dal punto di partenza. Vi racconto questa storia ora non per impietosire o commuovere, non per insegnare una facile retorica, ma per abbozzare un contesto, per provare anche solo a immaginare in quale momento impossibile il
calcio ha fatto il suo ingresso nella vita di Nadia Nadim.

Danimarca. Campo per rifugiati. Divisa da un mondo più semplice da una recinzione, Nadia guarda oltre le barriere, oltre le difficoltà, oltre i ricordi. Dall’altra parte c’è un altro tipo di campo, diverso da quello che ora è la sua casa, ma anche se non lo sapeva, è un campo che diverrà la sua casa. È verde, è libero, profuma di possibilità, profuma di fantasia, di normalità.

Ci giocano i ragazzi, a pallone, ma ci giocano anche le ragazze. È attraverso quella recinzione che Nadia Nadim vede per la prima volta una ragazza giocare a calcio, piccola, minuta, veloce, straordinaria. Un sogno. In quel momento Nadia ricomincia a sognare, ricomincia a credere di avere un’occasione, di poter scegliere.

E Nadia sceglie il calcio. Tra palloni rubati e restituiti e una nuova spinta per ricominciare a vivere, quando posa la testa sul cuscino, Nadia sogna di superare quel confine, sogna di non aver più fame se non di gloria e ambizione, sogna l’entusiasmo dei tifosi che gridano il suo nome e celebrano il suo gol, la sua vittoria.
Il calcio, anche da lontano, richiama Nadia, come una sirena che questa volta ti porta in salvo, non alla deriva. E più la vita prova a incatenarla, più Nadia se ne libera con una forza doppiamente maggiore. La sua coinquilina a Portland, Dagny Brynjarsdottir, diceva di lei che quando un’avversaria commetteva fallo a sue spese, Nadia si rialzava senza dire nulla ma alla prima occasione le restituiva il “favore” con più determinazione, forse perché non era più intenzionata a subire senza reagire. E così Nadia ha affrontato la sua adolescenza, con sua sorella minore seduta insieme a lei sul sellino di una vecchia bicicletta per consegnare i giornali quando il sole non era ancora sorto, per evitare che sua madre si perdesse tra i suoi tre lavori, per avere abbastanza cibo sulla tavola, per continuare a usufruire di quell’istruzione che sapeva l’avrebbe salvata, per poter mangiare un gelato ogni venerdì sera e per inseguire quel sogno con cui era rinata la prima volta.

Nadia Nadim diventa danese ma sa ormai fin troppo bene di dover lavorare il doppio per “meritarlo” perché Nadia non ha l’aspetto di una donna danese. E anche perché Nadia è una donna che vuole giocare a calcio. Ma è brava, cielo se è brava, e lei sa bene anche questo e sa cosa voglia dire saltare nei cerchi di fuoco, talmente tanto ardenti che ormai non la bruciano neanche più. Nadia va incontro alla sfida, la cerca, la guarda negli occhi e la affronta a viso aperto. Intorno ai 17/18 anni, ottiene il suo primo contratto, ottiene la possibilità di liberare sua madre dal peso di multipli lavori, ottiene per la prima volta la facoltà di scegliere, di non precludersi nulla, perché è questo che il calcio le aveva insegnato, le aveva mostrato di
poter sognare e quando quei sogni iniziavano a realizzarsi, Nadia li ha pretesi.

All’età di 19 anni infatti, Nadia Nadim decide di intraprendere la facoltà di medicina all’università, la carriera calcistica inizia a permetterglielo e anche le sue sorelle avevano abbracciato lo stesso percorso, forse per la stessa ragione: restituire in parte ciò che credevano di aver ricevuto. Ma a Nadia viene inizialmente imposto un bivio: la medicina o il calcio. Non poteva avere entrambi. Erano convinti che non dovesse avere entrambi. Ma chi non ha mai avuto la possibilità di scegliere ha imparato presto a non farlo ed è esattamente ciò che Nadia ha fatto: non ha scelto. E li ha presi entrambi.

“Why is she telling me what’s possible and what’s not possible? Why is she killing my dreams?”

Il calcio non ha limiti, il calcio non ha confini. È il 2014, è al Providence Park ma da rivale. Indossa la maglia dello Sky Blue FC (tutti hanno giocato almeno una volta nello Sky Blue FC!) ma quei tifosi avversari, quelli che provano ad ostacolare ogni azione della sua squadra con innocui ma costanti cori di scoraggiamento, anziché infastidirla, le mostrano esattamente ciò che ha sempre voluto, ciò che sognava quando si addormentava nel campo per rifugiati in Danimarca. Nadia vuole il Portland. Nadia si prende il Portland. E quei tifosi ora sono con lei, la difendono, la celebrano, riconoscono la sua grandezza.

Negli anni da Thorn, Nadia Nadim dimostra la sua magnificenza, è una punta precisa, letale, aggressiva, da difensore vuoi lasciarle quella palla perché forse è meglio così, perché fino alla fine la conquista da sola e può non essere piacevole!

La formazione del Portland Thorns del 2017 è un All Stars: Nadia gioca con Tobin Heath, Christine Sinclair, Amandine Henry, Lindsey Horan ed Emily Sonnett, giocano senza sconti, vincono senza chiedere scusa. E nel frattempo Nadia continua a studiare, nelle pause, dopo gli allenamenti, nei momenti liberi. Mark Parsons elogia la sua dedizione, la passione, la determinazione, è stacanovista, ogni minuto è importante per chi è stato privato di troppo tempo in passato, tempo per crescere, tempo per vivere normalmente.
Con il Portland Thorns, Nadia Nadim vince il campionato NWSL del 2017, l’ultimo prima di lasciare la squadra, l’ultimo prima di un nuovo inizio, con il Manchester City. L’Europa diventa per Nadia Nadim una nuova sfida, una nuova arena in cui Nadia lotta come se non avesse nulla da perdere, forse perché per lei questa frase non è soltanto un modo di dire ma un ricordo. Nel 2019, Nadia Nadim firma con il Paris Saint Germain, inserendosi in uno dei circuiti europei di calcio femminile più competitivi al momento in attività e anche qui ritrova quell’entusiasmo che ha acceso i suoi sogni da bambina, quello spazio necessario per dimostrare al mondo e a se stessa che striker attenta, determinata e puntuale lei sia. Ma l’Europa significa per Nadia anche Nazionale, una Nazionale Danese che le ha negato l’accesso fino al 2009, anno del suo debutto in Algarve Cup, nella partita contro gli Stati Uniti. Nadim milita ancora oggi nella squadra danese, diventandone parte imprescindibile per ogni obiettivo.

Nadia Nadim è il tipo di persona che non ha più paura di alzare la sua voce, di essere se stessa, di esprimere apertamente ciò che pensa ma Nadia combatte tanto quanto difende. La sua storia, il suo passato, le possibilità che ha agguantato e quelle che le sono state concesse diventano ora per lei risorse fondamentali per aprire discussioni che non possono e non devono restare nell’ombra, in silenzio, per donare quella stessa speranza che l’ha resa protagonista del suo sogno, per compiere un piccolo gesto gentile che possa influire anche solo su una singola vita, che possa cambiare un destino. Da sempre attiva nel volontariato, da Luglio 2019 Nadia Nadim è ambasciatrice UNESCO per l’istruzione di giovani ragazze e donne, per promuovere l’importanza della parità di genere nella vita di tutti i giorni come nello sport, in linea con la battaglia intrapresa anche dalla Nazionale Statunitense Femminile, che Nadia stessa considera pioniera della lotta.
Giunta ormai quasi al termine dei suoi studi di Medicina per diventare chirurgo, tra una convention, un allenamento e un tirocinio, Nadia Nadim è al momento in Danimarca, dove continua ad allenarsi seppure in isolamento nella sua campagna, in attesa di tornare in campo ma pronta a indossare un’altra divisa se i tempi dovessero richiederlo, quella bianca da medico. Sul suo braccio compare un tatuaggio (probabilmente temporaneo) che dice: “Veni Vidi Vici”, una citazione celeberrima che mai come questa volta risulta profondamente adeguata per la persona che se ne serve. Nadia Nadim è arrivata, ha visto ciò che desiderava e l’ha conquistato, a dispetto di ogni ostacolo, trasformando il suo sogno impossibile in realtà.

“When you dream, dream big” Quindi la prossima volta che diamo per scontato il calcio, che pensiamo sia soltanto uno sport o un business senz’anima, ricordiamo la storia di Nadia Nadim e di quella volta che una calciatrice ha rivelato la sua vera identità da supereroina.

Rita Ricchiuti
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