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Rainbow Laces: le stringhe per un calcio più inclusivo

Le squadre inglesi aderiscono alla campagna Rainbow Laces per i diritti LGBTQIA, ma non mancano le contestazioni

In Inghilterra torna anche quest’anno la campagna Rainbow Laces, che invita le squadre di ogni sport a mostrare il loro supporto verso la comunità LGBTQIA. Nello specifico, le squadre di calcio inglesi (sia maschili che femminili) stanno aderendo all’iniziativa con stringhe, bandierine e fascia da capitano arcobaleno.

L’iniziativa Rainbow Laces è nata (ormai diversi anni fa) proprio per rispondere a una necessità che è purtroppo ancora molto urgente: far cambiare idea a quelle quattro persone su dieci che, secondo i sondaggi, ritengono che quello dello sport non sia ancora un mondo sicuro e rispettoso delle loro identità.

C’è da dire che in realtà queste quatto persone su dieci hanno ragione. Gli insulti omobitransfobici fra le tifoserie sono tuttora all’ordine del giorno. E quanti calciatori inglesi apertamente omosessuali o bisessuali conoscete?

Delle semplici stringhe arcobaleno possono fare poco, se non vengono accompagnate da azioni concrete che possano dimostrare che i club vogliono davvero impegnarsi per costruire un ambiente di inclusione e rispetto; per questo Rainbow Laces invita anche a prendere parola in qualsiasi modo, soprattutto attraverso i social, per sensibilizzare le persone.

Fa ben sperare il fatto che all’iniziativa abbiano aderito anche le squadre maschili. È un messaggio importante, se consideriamo che in quel caso l’omosessualità e la bisessualità rappresentano un taboo ancora più grande rispetto al calcio femminile.

Infatti, mentre abbiamo diversi esempi di calciatrici ed ex calciatrici inglesi “out and proud” (Farah Williams, Casey Stoney, Kelly Smith, Beth Mead, Jodie Taylor, Karen Bardsley, Lucy Staniforth, Jill Scott, Rachel Daly, Lianne Sanderson…), nel calcio maschile (per lo meno nelle top leagues) abbiamo ancora soltanto un esempio: Justin Fashanu, che fu il primo calciatore professionista inglese a fare coming out.

Era il 1990 e il coming out di Fashanu non fu ben accolto; tutt’altro: la sua carriera iniziò una graduale discesa verso il basso, lui venne rinnegato da suo fratello e dall’intera comunità nera britannica, fino a dirsi solo e disperato; nel 1998 si suicidò.

Da allora, nessun calciatore della Premier League ha fatto coming out. Nessuno. Spesso viene loro sconsigliato di farlo, perché la loro immagine ne risentirebbe (e con essa quella degli sponsor e la loro stessa carriera). Ecco perché indossare scarpe con i lacci arcobaleno è il minimo che si possa fare.

Eppure, neanche questo è così scontato. Anzi, sfortunatamente si è creato un vero e proprio movimento (che abbiamo deciso di non nominare, per evitare di dare un’immeritata e nociva visibilità) che si oppone a Rainbow Laces.

Un notiziario conservatore britannico, ad esempio, parla di persone “gender-confused” e definisce la campagna come “un tentativo di imporre l’agenda LGBT: normalizzare l’omosessualità e il transgenderismo”.

E ancora: “Se certe persone non si sentono a loro agio alle partite, nello specifico a causa delle loro pratiche sessuali aberranti – di cui non importa nulla alle altre persone negli stadi – davvero dovrebbe spettare ai club incentivare la normalizzazione di tali pratiche sessuali?”

È stata anche lanciata una petizione che intende chiedere alla FIFA di proibire l’utilizzo dell’arcobaleno negli stadi, appellandosi alla regola della FIFA che vieta l’uso di simboli politici sulle divise.

Quello che però sembrano non cogliere è questo: se è vero che la bandiera rainbow può essere considerata, in un certo senso, come un simbolo di lotta politica, qui la questione va ben oltre, non si ferma a una fazione politica o a un’altra. Qui si sta parlando di diritti umani universali, peraltro riconosciuti dall’ONU.

E ancor più grave è il fatto che stiano affermando di voler aiutare i calciatori che, per motivi di fede personale, rifiutano di indossare le stringhe arcobaleno.

In definitiva, gridano alla discriminazione nei confronti dei discriminatori. Che è un po’ come dire che io ti sto discriminando se non ti invito più a casa mia dopo che me l’hai incendiata. Qualcosa del genere, ecco. Quindi altro che “gender-confused”, quelli confusi sono loro, a quanto pare.

Martina Cappai

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